Sono appena tornata dal cinema: "Tutta la vita davanti", di Virzì.
Ed il primo pensiero è scrivere ciò che sento.
Questa non è una critica cinematografica, non ne ho le competenze e non è nei miei intenti.
E' piuttosto un amaro sfogo. Il film è certamente brillante, scorrevole e con quella cinica ma reale leggerezza che contraddistingue tante amare verità.
Eppure io ho pianto diverse volte durante il film.
Ho pianto innanzitutto di frustrazione.
Quel mondo fatto di una laurea utile solo come ulteriore quadro da appendere in stanza, di reality show che imperversano nelle discussioni quotidiane di chiunque, il sentirsi dire che si è "strani" perché si è "laureati", come fosse una sconosciuta malattia contagiosa.
Il bussare a mille porte solo per sentirsi dire "Le faremo sapere". E poi magari provare a bussare fuori dai nostri confini. E constatare invece amaramente che la qualità, altrove, premia.
Anche io sono una precaria. Nel senso che mi reggo in equilibrio precario.
Una laurea presa alcuni anni fa, che non ha fatto altro che, forse, riempire di orgoglio i miei parenti il giorno della discussione ed aver contribuito a rimpinzare le casse delle edizioni di testi universitari per quattro anni. Una laurea che, specie dopo la riforma universitaria che ha centuplicato e svalutato "il sapere", vale poco piu' della licenza elementare. Una laurea che, sebbene considerata un tempo "ottima" e "fonte di enormi e molteplici prospettive", mi ha portato solo a delle conoscenze intellettive che vorrei tanto dimenticare, in cambio di un impiego.
Da quando ero piccola -e fino a non molto tempo fa, lo ammetto-, avevo il desiderio di fare un unico mestiere: la giornalista.
Ora mi basterebbe semplicemente farne uno, uno qualsiasi.
Uno che ti dà il motivo la mattina per svegliarti e non pensare a come far passare il piu' velocemente possibile un'altra lunga giornata, uno che ti fa dire agli amici "mi dispiace, stasera proprio non posso, ho lavorato tutto il giorno e sono distrutta". Uno possibilmente anche retribuito, non passato per stage formativo, e quindi, a puro titolo gratuito.
La protagonista del film, Marta, si ritrova ad un certo punto ad una cena con i suoi ex compagni di università, a poco tempo di distanza dalla sua laurea, presa con tanto di bacio accademico; tra i suoi amici, un paio di autori televisivi (ovviamente di un reality show), un editor, un regista "alternativo" di pubblicità. E poi lei, l' "unica in grado di andare fino in fondo" con la facoltà che inizialmente avevano scelto tutti, filosofia. E l'unica lì in mezzo a doversi arrangiare tra un lavoro di baby sitter ed uno di centralinista in un call center.
Perché, anche a lei, "le avrebbero fatto sapere".
Credo che l'Italia sia semplicemente un paese incivile. Dove l'ignoranza premia, mentre la volontà e le capacità di fare sono mortificate da oligarchie vetuste (emblematica la scena della discussione di laurea: tutti i professori di certo hanno avuto per l'occasione la libera uscita dall'ospizio in cui risiedevano), necessità di sopravvivere, mancanza di certezza del "domani", ignoranza diffusa (quando la bambina co-protagonista del film dice che da grande vuole fare filosofia, la madre le risponde: "Filosofia???E che è un lavoro?) e tante, tantissime chiacchiere.
Come quelle che si fanno per motivare i dipendenti di un call center, o che costringono indirettamente i suoi venditori porta a porta a rubare la pensione di una anziana per poter così raggiungere il minimo degli introiti mensili da presentare al capo.
Un finto buonismo, una finta leggerezza di chi ci governa su questi temi è semplicemente disgustante; se da una parte siamo l'unico Paese per così dire "civile" ad avere una classe politica composta come minimo da persone in età pensionabile, il solo a detenere il record della cosiddetta "fuga di cervelli" all'estero per via dell'assenza di un posto al sole anche qui, dall'altra, però, il nostro è un Paese ricco di "amiche" ed "amici" del potente di turno che miracolosamente si trovano alla ribalta di rotocalchi e palcosenici o che magari scrivono un libro sui segreti dei tanto declamati vip (tra l'altro rifacendosi ad un testo ben piu' meritevole di lettura), piuttosto che un ricettario con utili consigli per decorare il centrotavola.
Mi vergogno di non avere ancora avuto il coraggio di andare via dall'Italia, come una vigliacca.
Sono certa che andare anche solo a pulire i bicchieri nel piu' puzzolente pub inglese mi farebbe sentire meno denigrata di quanto mi senta da tre anni a questa parte.
Ho quotidianamente il desiderio di riuscire a dormire di piu' la mattina, per non iniziarmi a chiedere sin dall'alba perché non sono restata ignorante.
Forse, così, sarei riuscita ad accettare il compromesso con me stessa di far parte anche io del "meraviglioso mondo" del call center.
2 commenti:
aspettavo con un certo timore il tuo post su virzì... hai scritto quello che sospettavo.
ho condiviso durante il film le tue stesse lacrime, e per vergogna non le ho citate nel mio racconto post visione. ancora mi devo abituare ad essere insoddisfatta.
baci
fra
Cara Kris,
ho letto il tuo sfogo sul blog.
Non credo ci si debba sentire "vigliacchi" per aver scelto la strada più difficile per andare incontro al proprio futuro quella, cioè, di seguire le proprie passioni. Lo sarebbe molto più abbandonarle per realizzarsi solo economicamente violentando la propria creatività rispondendo al telefono per 8 ore al giorno. L’Italia, certo, non è il luogo più adatto, soprattutto in questi anni, per fare del talento il proprio lavoro, ma quando, come nel tuo caso, lo si possiede, qualcosa di buono vedrai che esce fuori.
Non spegnere il fuoco delle passioni dalle lacrime della frustrazione, ok?
Posta un commento