18 marzo 2007: l"incipit


"Vieni a fare un giro dentro di me
o questo fuoco
si consumerà da sè.
E se una vita finisce qua
quest'altra vita
presto comincerà"

Con parole di altri (gli Afterhours), apro questo blog, con il fuoco che spero non si spenga mai.
Ho scritto molte parole, forse inutili o banali, o forse interessanti, irriverenti e divertenti.Le ho pubblicate altrove, ma a volte capita che dopo una giornata al mare si torni a casa solo con la sabbia nelle scarpe.
Ecco spiegato, quindi, il perchè di post retrodatati.
E' iniziata anche questa avventura..davanti, l'orizzonte. Sconosciuto. E per questo, assolutamente elettrizzante!
Buona lettura a tutti!



28 dicembre 2006

E se il 2007 fosse l'anno del digiuno e dell'astinenza?

“Tre, due uno....Buon Anno!!!”. Baci, abbracci, brindisi, trenino, cotechino e lenticchie.
Volenti o nolenti, tutti o quasi saremo tra qualche giorno in balìa del forzato festeggiamento, magari in qualche locale o piazza, ad esultare con molti altri sconosciuti la partenza di un anno che è sempre stato peggiore di quello che ci si augurava e l'arrivo di uno che si spera sia migliore dei precedenti.
Il tutto, ovviamente, senza arrivare impreparati all'evento.
Shopping frenetico dopo gli acquisti natalizi alla ricerca dell'abito per la serata, parrucchiere il 31 mattina e scorta di collant che imprevedibilmente -ma puntualmente- si rompono in numero maggiore di due non appena si inforca la porta di casa.
Psicologicamente, invece, la preparazione è stata un po' più lunga; i più accorti si sono prenotati il tavolo nel posto “in” già da mesi, mentre gli indecisi e gli impreparati al D-Day avranno una scusa in più per augurarsi che il nuovo anno sia migliore del precedente.
Immancabile, poi, la lettura frenetica di tutti gli oroscopi, gli I-King, i tarocchi e le previsioni astrali.
Con annessi buoni propositi, riflessioni millenaristiche ed importanti scelte di vita come quella della mèta della prossima vacanza estiva.
La demonizzazione dell'anno che volge al termine, tuttavia, è iniziata già da qualche mese; politici, privati cittadini, starlette e pensionati hanno da tempo rivolto la loro critica a quanto avvenuto nel corso dei dodici mesi precedenti.
La gara al proposito migliore per l'anno nuovo è stata dichiarata silenziosamente da tutti.
“Giuro che mi metto a dieta dal 1 gennaio”; “Cambieremo la politica di questo Paese”; “Starò di più con la mia famiglia e meno in ufficio”; “Con l'anno nuovo verranno creati milioni di posti di lavoro”.
Ed altre idiozie del genere.
Poi, il monito autorevole del Papa fatto a metà dicembre: la fedeltà nel matrimonio e l'astinenza al di fuori di esso sono la via migliore per evitare l'infezione e per fermare la diffusione dell'Aids.
Un fulmine a ciel sereno. In occasione dello scambio delle lettere credenziali con il nuovo ambasciatore del Lesotho, Papa Ratzinger ha acceso la miccia di una bomba ad orologeria: quella dei propositi comportamentali e di costume.
E se accogliessimo il consiglio del Papa? Astinenza e digiuno per limitare una delle piaghe sanitarie di questo secolo e per moderare lo spirito edonistico che pervade qualsiasi settore della vita quotidiana?
Certo, dovremmo fare dei sacrifici.
Vorrebbe dire sbarazzarsi dell'ansia femminile della depilazione pre-uscita, di quella da prestazione comune a uomini e donne e soprattutto del consumistico e goliardico modus pensandi della nostra epoca.
Niente più modelle in prima pagina sui rotocalchi di tutto il mondo -ree d'aver fatto uso di droghe ed alcool-, da demonizzare e poi strapagare dopo una finta disintossicazione di ben due settimane in qualche rinomata clinica statunitense. Niente più vallettopoli e sexy scandali; niente più reggicalze ben visibili sotto la gonna della segretaria durante la riunione col capo.
Ma, soprattutto, niente più calendari con antropomorfe statue, ben oliate ed abbronzate figure mitologiche ed inarrivabili, oggetto d'arredo delle pareti anche del più probo individuo.
Basta fiumi inquinati dalla cocaina, basta scappatelle e ricchi compensi al paparazzo per non far andare in fumo il proprio menage, basta mea culpa tra Natale e Capodanno per come ci si è comportati durante l'anno.
Se davvero tutto ciò si potesse realizzare, però, ci resterebbe solo la concessa evasione del delirante trenino di Capodanno...
Per definire il mal di vivere di ogni epoca ha i suoi termini appropiati, nonchè le sue cure. Ma ricordiamoci che ogni essere umano non è mai un alieno.


-Pezzo uscito il 30/12/06 su www.imgpress.it-

26 dicembre 2006

Lunga vita alla gnocca senza testa: in un mondo di filosofi vince l'ignoranza mediatica

“2006: Annozero”. Probabile titolo di un film del redivivo Kubrick
“Il fantasma della gnocca senza testa”. Nuovo fumetto di Dylan Dog o tendina di un nuovo ed irriverente servizio di Striscia la Notizia.
In effetti, nulla di tutto ciò.
Banalmente, l'ennesima dimostrazione della noia dei dibattiti politici o fintamente sociali che si fanno in tv, scalzati dai commenti irriverenti dell'ospite del momento piuttosto che dai calzini spaiati del conduttore.
Nonostante la gnocca in questione (Rula Jebreal, volto noto de La7) fosse impegnata in un'animata e seria discussione con il Ministro Di Pietro durante l'ultima puntata della trasmissione di Santoro, l'attenzione di tutti si è concentrata su questa voce fuori campo, che, in tempi di calendari con starlette nude, sconosciuti che diventano famosi isolani e televendite di pentole con ex letterina in minigonna, ha riportato alla ribalta uno degli argomenti più succosi da affrontare.
Una misoginia malcelata insieme ad un redivivo femminismo vogliono proporre una donna non solo curata esteticamente come una Barbie, ma anche con la profondità e l'intelligenza di una Virginia Woolf.
E poi arriva lei: la misteriosa Voce Fuori Campo, demolitrice di tutto il lavoro fatto finora.
A partire dalla rivoluzione al concorso di Miss Italia, che dopo anni di accuse rivolte alle aspiranti miss di rappresentare vuoti involucri di bellezza, ci presenta adesso virtuose e studentesse della porta accanto, collegiali modello dedite alla beneficenza.
Prima ancora era stata la volta di Bridget Jones; ovviamente, in quanto sfigata, donna grassa e maldestra, oggetto tuttavia delle brame sessuali dell'affascinante capo. Con plausi ed elogi per Renee Zellweger per aver addirittura accettato di ingrassare 20 chili per calarsi meglio nella parte.
Senza contare la Aileen Wuornos di Monster, premio oscar a Charlize Theron probabilmente dato per essersi così tanto imbruttita da far concentrare per una volta il pubblico sul film piuttosto che sulle sue curve mozziafiato.
Ma Rula tutto ciò non l'ha considerato; ha oltraggiato gli anni di lotte del femminismo attraverso quella camicia bianca che le fa risaltare “l'abbronzatura” e il sorriso da pubblicità. Non contenta, si permette di sentirsi allo stesso piano di rinomate penne giornalistiche ed uomini di Stato nel giudicare la politica del nostro Paese, come se l'articolo 48 della Costituzione inglobasse nell'elettorato anche le Donne Pensanti.
Ma esiste questa strana categoria? Certo che sì.
La Donna Pensante è un'involuzione del mammifero Uomo, dotata di lunghi baffi neri non sempre accuratamente pettinati, quantità adiposa in abbondanza variamente sparsa lungo il corpo, dedita perlopiù ai lavori domestici e ad una forma primigenia di pensiero.
Per fortuna, accanto a questa strana involuzione umana, c'è quella della Gnocca: gambe chilometriche perfettamente depilate, seni prosperosi dal cerchio giottesco, lunghi e lucidi capelli, sederi di michelangiolesca bellezza e, soprattutto, materia grigia così assente da avere i corpi cellulari dei suoi neuroni in pandant con le scarpe e la borsa.
Speriamo che il cappuccio che le copre la testa (?) si accordi con le tendenze del momento.
Od entra in crisi anche il nostro italian style.



-Pezzo uscito il 26/12/06 su www.imgpress.it-

15 dicembre 2006

Lei

Lei.
In piedi davanti la lunga finestra. I lunghi capelli legati solo davanti, le lasciano, tuttavia, dei fili chiari sul viso, complici fuggiaschi di quella ciocca tra le labbra.
Fuori la pioggia scende sottile e serena, come a dispetto del cielo grigio e metallico. Quasi inconsapevole dei pensieri di chi sta opacizzando il vetro col suo respiro. Macchia dai contorni sfumati sulla superficie pulita.
Un po’ come lei.
In testa un turbinio di pensieri, senza tuttavia un oggetto preciso; nello stomaco una morsa attanaglia le viscere, come se qualcosa la stesse divorando.
Eppure sembrava fosse passato. Tutto era stato nuovamente riempito. O almeno così veniva percepito.
Poi, all’improvviso, un’immagine in testa. Una notizia improvvisa e il dubbio di sbagliare strada, di perdersi nuovamente in vani fatiche.
La strada: quale? Per la saggezza degli antichi, quella vecchia è sempre la migliore perché conosciuta. Eppure forte è la voglia di avere il coraggio di esplorare. Di saltare nel buio, consapevole di avere in sé la luce necessaria per illuminare il burrone.
«Ma allora perché non lo fai»?
Si allontana dalla finestra.
Dietro di lei un tavolino di vetro ospita conchiglie e libri sparsi, tutti iniziati e con il proprio segnalibro bene in mostra all’ultima pagina letta. Conchiglie grandi, quasi ostriche, usate ora come posacenere, simbolo di una destinazione diversa della propria natura, a dispetto di quanto successo finora. E parole, sempre di altri, come se lei non fosse in grado, sebbene da molti riconosciuta come grande oratrice, di dare vita alle sue.
C’è sempre qualcosa di inespresso anche nelle manifestazioni più evidenti di idee. È questo quello che pensa.
Si avvicina nervosamente allo stereo; mette al massimo il volume delle casse, lascito di una vita altrui passata tra le sue membra.
Le note richiedono un momento per far sedimentare i pensieri.
Spegne la luce e si accovaccia sul divano, in quella posizione fetale che tanto la rassicura quando qualcosa la spaventa.
Le sigarette accanto a lei sono un richiamo troppo forte per non essere ascoltato; la sua mano si protende verso di esse come verso una fonte di vita nuova. In genere il connubio alcool-musica e tabacco viene sempre identificato come habitat naturale dei pensieri. Chissà perché poi. Eppure lei sente che in questo momento è così.
All’improvviso un fulmine illumina l’oscurità della stanza e dallo specchio davanti viene proiettata l’immagine di una donna vestita di grigio, sdraiata su un divano candido, con un puntino rosso tra le mani.
E se fosse questa l’immagine della sua vita? Se il suo problema fosse avere tra le mani una piccola fiamma che vorrebbe trasformare in fuoco di luce?
Immagini e persone abitano i suoi luoghi della memoria, come se la vita che stesse vivendo non fosse altro che un parallelo di quella che vorrebbe vivere, come se i fantasmi di altri ricordi e di altre persone le coabitassero dentro fino a farla sentire un involucro di quelli e non di se stessa.
Passa la musica, all’improvviso un accordo in fortissimo la desta dai pensieri e la attrae nuovamente alla finestra. Le gocce si attaccano all’asfalto come desiderose di arrivare finalmente a quella meta.
Si chiede quale sia la sua. Lasciare tutto ed andare via, senza rimorsi, rimpianti e pensieri, sperando così di gettarsi finalmente nella sua di vita, o almeno in quella che rappresenta l’«altro» che ancora non è?
La cenere le cade addosso…è talmente distratta da queste sue sensazioni da non rendersi nemmeno conto di far fumare da sola la sua sigaretta. Un po’ come capita spesso a chi si affanna nelle cose senza capire se sta camminando sul serio verso un dove o se sta semplicemente su un tapis-roulant facendosi fintamente condurre in nessun luogo.
Ritorna ai suoi fogli, allontana dal tavolo la sedia ed incrocia le gambe, come se il fiore di loto della sua posizione le portasse automaticamente una serenità che sembra non esserci.
Al momento per lo meno.
Davanti a lei, ancora libri, e fogli sparsi. Un computer portatile e pagine bianche. Nonostante la tecnologia, sente dal profondo il bisogno di impugnare una penna e dare vita a quel groviglio dell’animo.
La prima lettera, gigantesca, quasi a voler abbracciare l’altezza del foglio, leggermente in neretto come una macchia nera dei pensieri.
Incipit di una parola: Lei.
Ed il fluire di un non-senso di pioggia e pensieri, fumo e note.
Lei.

24 novembre 2006

Concerto di Ligabue,Granteatro, Roma

Sono le 21.10.
Le luci del Granteatro si spengono, il sipario si apre su quel palco rimpicciolito per rendere maggiore l'intimità della band; una sola luce, bluastra, illumina Luciano.
L'instancabile narratore di sogni e speranze, dolori ed urla taciute. In solitudine -o quasi- affronta la prima parte di un concerto davvero emozionante.
Si presenta seduto su uno sgabello -con una camicia blu e la sua chitarra- ai 3000 che hanno riempito il teatro; inizia ammonendo i suoi solitamente scatenati fans: «Ragazzi, non fate casino qui, per favore. Siamo in un teatro e purtroppo non ci si può agitare troppo..».
Inizia, quindi, il suo concerto; anche se forzatamente ingessati, chi più chi meno intoniamo con lui le parole del Ligabue degli esordi, quello che urlando contro il cielo gridava che a volte serve un motivo per affrontare quelle strade troppo strette e diritte per chi vuole cambiare rotta oppure sdraiarsi solamente un pò.
Le luci illuminano la platea; per la prima volta è innanzitutto lui che vede noi e noi che siamo semplicemente e totalmente immersi nelle note della sua chitarra e del violino di Mauro Pagani. E Luciano non manca di sottolineare quanto questa dimensione più intima e queste luci gli piacciano; riesce finalmente a vedere i volti di chi, mani tese verso di lui e voce roca a fine concerto, lo supporta da anni. Sembra emozionato.
Le mani battono, i piedi fremono e i ricordi portano ognuno dove la sua voce ha cristallizzato delle tracce.
Sembra quasi di vederlo, Walter, che con il suo “abracadabra” riesce per l'ennesima volta nel suo trucco vecchio come il coniglio nel cilindro; il portavoce di noi con la giacca sbagliata, fuori moda e fuori posto, che magari buttiamo tante cose -anche se il famoso viaggio lo facciamo insieme a qualcuno-, nella speranza che,alla fine di tutto, faccia davvero meno freddo.
Una prima parte sommessa, quasi sottovoce, profondamente malinconica, o forse io l'ho vissuta così.
Forse perché le parole di Luciano hanno spesso accompagnato il mio vissuto; forse perché ieri avevo bisogno di urlare la mia rabbia. Forse perché, anche se non vorrei, non riesco a vivere la mia vita a pieno. E' stata la necessità di urlare insieme ad altri la voglia di essere ascoltati, il bisogno di avere qualcuno da sentir passare nella schiena o che si infila silenziosamente in un pensiero.
Tra una canzone e l'altra ogni tanto gli “scappa” qualcuna delle sue poesie; parole “vomitate” su un foglio, senza linee d'interpunzione, solo con gli interrogativi.
Gli stessi presenti quando ci si chiede se è ancora sesso o già amore, gli stessi di quando ci si presenta ad un appuntamento che non verrà rispettato, di quando ci si chiede se si è come quella stella che vuole a tutti i costi scappare da chi la vuole tenere nel proprio buio.
Una pausa di dieci minuti mi permette di far sedimentare le note di ciò che conoscevo, ma che grazie ad un nuovo arrangiamento ha permesso di far risaltare maggiormente le idee e le capacità di questa voce graffiante ma tenera, profonda ma non per questo ammonitrice.
Riprende lo spettacolo; la seconda parte è più movimentata, come se Ligabue ci stesse stretto in quella veste di narratore mesto di pensieri agitati. Ed ecco che la band si allarga; sul palco anche Mel Previte, Rigo Righetti, Robby Pellati e Josè Fiorilli.
La sua anima profondamente rock viene fuori; e a quel punto, noi “maleducati” quasi vogliamo buttarle giù quelle poltrone di un teatro che va troppo stretto per chi ha le gambe che fremono e le braccia verso il cielo, a dispetto di chi ti sta seduto dietro e vorrebbe assistere ad un'opera di Shakespeare.
Si viene e si va, Eri bellissima, Vivo o Morto o X, Questa è la mia vita; manca solo Anime in plexiglass...Ma a quel punto Ligabue avrebbe rischiato davvero di far smontare la struttura del Granteatro!
Due ore e dieci di un concerto che, se fosse stato per me e credo anche per molti altri, sarebbe dovuto durare almeno altre 3 ore; perché né io né gli altri, né tanto meno questo perfetto mix di lambrusco, coltelli, rose e pop corn avevamo voglia di andare via. Volevamo ancora agitarci, sentire tutte le possibili variabili melodiche di brani nati anni fa ma non per questo passati, cantare in compagnia a squarciagola per sentirsi così un po' meno soli.
Ringrazia il suo pubblico Luciano, felice che tutti insieme si è riusciti a trasformare in qualcosa di magico ed emozionante ciò che in questi anni ha fatto da diario alle storie di tanti che, come me, si sentono buttati in mezzo alla nebbia, ma non per questo si rassegnano a viverci.


-Pezzo uscito il 24/11/06 su www.lineamusica.it-

09 novembre 2006

Intervista a Pago


Non hai partecipato a San Remo quest'anno. Come mai, invece, la scelta di Music Farm?
A San Remo, a dire la verità, ho provato a partecipare, tra i giovani. Sono arrivato quasi fino all’ultimo, ma poi hanno deciso di non prendermi. Poco dopo l’esclusione dall’edizione di quest’anno del Festival, invece, mi hanno proposto di partecipare a Music Farm ed ho subito accettato..era, e alla fine si è dimostrata così, davvero un’ottima occasione..
Questa esperienza, al di là dei sicuri benefici professionali, pensi ti abbia apportato qualcosa anche a livello umano?
Sicuramente. Convivendo per due mesi con dieci persone diverse, umanamente prendi qualcosa. Instauri rapporti che fuori non avresti potuto avere, sia per la tipologia di vita che fa ognuno di noi, sia per i diversi luoghi in cui viviamo, sia magari perché non avresti mai pensato sarebbe potuto accadere. E nello specifico, mi riferisco soprattutto al rapporto che si è creato con Franco Califano.
Come va dopo la vittoria? Te l'aspettavi?
Sono assolutamente sballottato. Non me l’aspettavo. Ed ora milioni di interviste, incontri…insomma, tutto di corsa! Non ho nemmeno il tempo di incontrare gli amici! A fine giornata, completamente distrutto, pensa che torno a casa a riposare!
Dopo tutta la gavetta che hai fatto, non hai paura di essere ricordato come "il vincitore di Music Farm", un personaggio dello spettacolo, piuttosto che come musicista?
Veramente no, non ho nessuna paura. Come hai appena detto tu, ho fatto molta gavetta. Senza contare che quando ti etichettano è perchè ti vogliono etichettare. A livello di critiche, già prima della vittoria, ero stato molto fortunato; ora, mi auguro continuino solo a dirmi che il mio lavoro è buono se poi in effetti è così. Mi sento e credo di essere un musicista vero.
Nella farm hai sbandierato i tuoi sentimenti, ammettendo le tue debolezze. Cos'era? Strategia, voglia di un gesto eclatante per recuperare il terreno perso con tua moglie...o cosa? Non hai avuto problemi a mostrarti "umano" nonostante la tua dichiarata timidezza?
Sinceramente, nemmeno ci ho pensato. Le telecamere le dimenticavo, le notavo solo quando gli altri me le facevano notare. Per quanto riguarda le dichiarazioni, invece, le ho fatte perchè me le sentivo. Nonostante nella vita normale faccia molta fatica, ci sono riuscito. Ed infatti ne sono contento; essere stato nella Farm è stato un bene, anche sotto questo punto di vista. I rapporti umani lì dentro mi hanno fatto tirare fuori lati che anche nella vita reale faccio difficoltà a tirare fuori.
Tormentone di questa edizione di Music Farm...cosa c'era tra te e Laura Bono?
Era assolutamente un gioco fra noi, specialmente perché già ci conoscevamo prima. Ci siamo divertiti! Davvero nulla di più. Necessità di sciogliere la tensione e di superare momenti di timidezza.
Dimmi tre persone nella farm con cui ti sei trovato meglio e perchè.
Guarda, sono esattamente tre: Franco Califano, per affezione e simpatia. Safina per gli stessi motivi e poi Laura, che, appunto, già conoscevo.
Ad un certo punto della tua vita hai deciso di lasciare la Sardegna per andare a suonare altrove. Come hai scelto la tua prima destinazione?
Quando sono andato via da Cagliari, la prima città in cui io e la band con cui suonavo allora, i ….., siamo andati a Parigi. Ci affascinava, infatti, il mondo musicale europeo. Tant’è che con i …. cantavamo in inglese, una tipologia di musica che pensavamo fosse hip hop (sebbene cantato in un misto tra sardo, inglese ed italiano!)..ci siamo semplicemente diretti subito in quella che pensavamo fosse il centro del mondo.
Poi sono andato via da Parigi e ho continuato a girare, fermandomi, quindi, a Milano…è inutile negare che, in Italia, è il maggiore centro discografico.. e poi è così iniziato il giro di tutte le case discografiche, cui sottoponevo un sacco di pezzi, sperando che qualcuno mi notasse..
Nella tua formazione musicale, che tipo di influenze hai subito?
Sicuramente quelle del pop e del rock italiano e straniero. Nessuno in particolare però, sebbene sia nato ascoltando rock’n’roll, Elvis, Bruce Springsteen e gli U2.
In alcune interviste dello scorso autunno avevi detto che l'album era pronto e che ne prevedevi l'uscita entro la fine del 2005. Invece è uscito lo scorso 5 maggio. Come mai questo ritardo? Sono stati fatti dei cambiamenti da quella versione a questa?
In effetti c’è stata una precisa scelta “strategica”…era in ballo San Remo..e poi è arrivato Music Farm..Le canzoni sono state scritte già da diverso tempo, praticamente dall’uscita di “Parlo di te” a oggi. Alla fine ne era venuto fuori un album completo. Poi, aspettando le continue evoluzioni tra la fine dell’anno scorso e l’inizio di quest’anno, è subentrata anche la necessità di apportare dei cambiamenti, sia a causa delle diverse “mode musicali” che si sono susseguite, sia per mie esigenze. E, quindi, sono state cambiate alcune cose. Ma poi è finalmente uscito…è questo l’importante, no??
Ora che i primi passi sono stati fatti, quali altri ne hai in mente? E' prevista una promozione live della tua musica?
Sicuramente ci sarà un tour. Un secondo passo importante. Specie perché sono abituato ad esprimermi live.. ne sento quasi l’esigenza dato che è da un po’ che non suono in pubblico.. è il momento che aspetto di più. Ci stiamo organizzando con le date e prossimamente saranno pubblicate online tutte le informazioni, sia sul mio blog che sul sito internet. Il tour dovrebbe partire a giugno e svolgersi nelle piazze italiane.. ma per ora ancora non ti so dire di più!
-Pezzo uscito a maggio 2006 su www.lineamusica.it-

23 settembre 2006

Kama: l'intervista

Dopo otto anni in un gruppo, gli Scigad, come mai la decisione di attuare un progetto solista?
Sinceramente avevo deciso di smettere di suonare. Devo dire grazie ad Ale ed Iki, innanzitutto miei amici oltre che gli altri componenti della band; loro, infatti, hanno ascoltato i pezzi che avevo scritto e composto da solista e mi hanno spinto a registrarli.

L’incontro con Stefano Clessi dell’Eclectic Circus?
Anche questo è stato dovuto ad una serie di coincidenze. Tutto è nato molto casualmente; dopo un mio concerto a Milano, Stefano si è avvicinato e carinamente mi ha detto di esser rimasto folgorato dalla mia musica. Al che ha insistito per iniziare a lavorare in maniera “più ufficiale”.
Prima parlavo di coincidenze semplicemente perché quel mio concerto a Milano era solo uno dei tanti che ho fatto avendo tuttavia già deciso di abbandonare la carriera da musicista. Suonavo per me. Il fatto è che fino a quando ho cercato realmente di fare il lavoro del musicista non ho ottenuto grandissime soddisfazioni. Non appena invece ho deciso di abbandonare tutte le mie velleità artistiche, sono arrivati un po’ tutti e son successe un insieme di cose!

Testi e musica sono tuoi; a quali modelli musicali ti ispiri per entrambe le situazioni?
Bella dura come domanda! Mi piace la tradizione musicale italiana, cantautori a partire da De Gregori, Battisti, Bertoli…del resto in Italia ce ne sono moltissimi, e tutti bravi! A livello internazionale, invece, da piccolo adoravo i Beatles…mio papà faceva il musicista negli anni ’60, per cui sono cresciuto con questa musica.
Ora, da qui a dire che mi ispiro a loro è complicato; secondo me quando scrivi canzoni e musica c’è un riassunto di quello che si è ascoltato nella propria vita, che sia la radio o Sanremo o le cose più moderne. Nonostante non siano modelli a cui mi ispiro, sicuramente però ne sono influenzato..ma ti posso assicurare, nessuna premeditazione!

Come mai questo titolo per l’album dato che non è né il titolo di una canzone al suo interno né un pezzo di qualche brano?
Sostanzialmente, ho creduto fosse un modo abbastanza carino per dire “smettiamo di prenderci in giro, iniziamo a dire la verità com’è per davvero”. Oltretutto, poi, riassume un pochino il disco, essendo tutte le canzoni relative ad atteggiamenti e modi di comportarsi, frutto delle esperienze; per far ciò, ho poi scelto il linguaggio dell’ironia, a parte un paio di canzoni un po’ più “profonde”che ho inserito nell’album.

Nella copertina dell’album sei di spalle e guardi avanti. Che vorresti vedere?
Innanzitutto la copertina è frutto del lavoro di Luca Armiri. Secondo poi, mi aveva fatto ridere. A differenza delle altre che mi avevano sottoposto, infatti, mi piaceva l’idea di avere uno sguardo sulle altre persone, distante..sinceramente mi aveva esaltato!..anche se ti devo confessare che l’ho scelta all’improvviso…il giorno prima non ne ero convintissimo ed il giorno dopo, invece, mi sono svegliato dicendo “È lei”!

Mi è piaciuta molto “Icaro”; una storia dura eppure reale. Da dove è nata una canzone come questa?
“Icaro”
è il racconto di una storia che ho vissuto. E’ una canzone seria e dura perché non poteva essere altrimenti, anche se sono riuscito a scriverla così perché l’avevo metabolizzata. Per me la figura di questa donna era più una strada verso la liberazione che il contrario, per cui ho creduto di far bene inserendo un pezzo come questo.

In “Passami un po’ di vita” chiedi del pane per raccogliere nel piatto del passato gli avanzi dei tuoi sogni. Quali erano questi sogni del passato e quali quelli del presente?
Beh, i miei sogni del passato erano quei sogni un pochino fantasiosi ma sinceri.. il fare il musicista per davvero, la rock star servita e riverita, piuttosto che avere un mondo senza troppo spargimento inutile di sangue o avere un essere umano migliore di quello che c’è adesso o piuttosto trovare la compagna della mia vita…Praticamente il risultato del mix di amore idilliaco, film americano e telenovelas! E poi, ovviamente, tutti i sogni di ragazzino, compreso quelli di diventare calciatore!
Ad un certo punto, però, prima di cominciare a ricostruire e a ricostruirsi, bisogna distruggere tutto, con ironia, diventando adulti nonostante l’adolescenza prolungata che va tanto di moda oggigiorno. Purtroppo sempre più spesso si fa i conti con se stesso quando ci si è costretti a farlo.

Poi c’è “Lulù”. Chi è? Che tipo di donna rappresenta dato che le dici che è la donna che vorresti?
Lulù è una puttana che diventa una prostituta. E’una rivalutazione di un ruolo sociale peggiorativo, che ho fatto in modo scherzoso e sorridente. Il tutto poi si rifà ad un fatto reale. Ero in macchina una sera con degli amici e uno di loro ad un certo punto ha fatto un commento su una mignotta, ma non in maniera volgare o scurrile, anzi, in una maniera così dolce, apprezzandone la bellezza e la dolcezza del viso, che ne sono rimasto colpito. Con le sue parole, il mio amico mi ha portato a valutare un controsenso nella mia testa, un mio tabù: bella non è un aggettivo per una prostituta, è per una donna.
E da lì è nata Lulù.

Scrivi tu i testi delle canzoni. Quale credi rispecchi di più ciò che sei? In quale è possibile vedere più a nudo il vero Kama?
Sicuramente “Sapore sapido”. Probabilmente perché è stato l’incipit di tutto il progetto, una delle prime canzoni che ho scritto e poi perché parla della mia rinascita, nel senso profondo e psicologico del termine (sono uno psicologo!). Ho provato ad un certo punto della mia vita lo sprofondare nel baratro; è stato un periodo particolarmente buio e difficile, durante il quale ho dovuto lavorare molto su di me ed ho capito diverse cose che mi facevano stare male, riuscendo addirittura a rivalutare i miei stessi difetti! Poi, finalmente, la risalita. E con essa la capacità di gustarsi un bicchiere di vino e una chiacchierata con gli amici per quello che sono, rimettendo in ordine la propria scala di valori.
Forse è anche un po’ per questo che la testa tra le nuvole della copertina mi è piaciuta così tanto, mi ha subito trasmesso un’idea di libertà. Anche se il mondo ti porta a fare pensieri diversi, le cose importanti sono sempre quelle e dai tempi dei tempi, come l’amicizia, il gustare certi momenti, il condividere certi momenti.. E’indubbio che meno importanti siano i soldi, il lavoro e le soddisfazioni personali di altro tipo; eppure attualmente alla sommità dei valori c’è il potere. Sempre e comunque lui.

Tra poco esce il tuo album; progetti live?
Dopo il periodo promozionale dell’album inizierà il tour, ma ancora non ho le date precise. I live però ci saranno sicuramente; mi piace moltissimo suonare dal vivo, credo sia la massima espressione di un artista, senza contare che con Iki, Ale, Stefano e Max mi ci trovo benissimo.
Il gruppo dal vivo è in una situazione di band, divertente e bello da vedere.



-Pezzo uscito a settembre 2006 su www.lineamusica.it-

10 luglio 2006

Mauro Di Maggio: l'intervista



Poetico, intimista, simpatico, ironico, coraggioso, bravo.
Potremmo aggiungerne altri di aggettivi che vanno a descrivere questo ragazzo di 29 anni, Mauro Di Maggio, uscito la scorsa primavera con il terzo album, “Amore di ogni mia avventura”.
Lo incontro telefonicamente, una lunga chiacchierata ricca di spunti interessanti per conoscere meglio colui che è stato definito “il Battisti”del 2000.

Tre album e tre successi. Nel tempo non ti sei snaturato, ma appari più maturo e più completo. Come ci sei riuscito? Come è nato questo terzo bellissimo album?
Rimanendo sempre quello che sono e restando convinto che l’unica tipologia di musica che posso fare sia esattamente quella che faccio. Un altro genere non mi apparterrebbe e non lo sentirei mio, anche se magari mi porterebbe maggiori vantaggi.
Pensa che questo album l’ho registrato tre volte, perché non ero mai contento! È giusto, infatti, parlando con altre persone, dare loro ascolto, accettare gli eventuali consigli, ma capita anche spesso che dimostro che avevo ragione io. E lo dimostro a me stesso, perché poi chiaramente chi ci mette la faccia sono io, chi ci mette la voce sono io, per cui…per fortuna, però, mi hanno sempre messo nella posizione di poter rifiutare altre cose o comunque di potermi esprimere come sentivo.
Con questo disco ho avuto questa fortuna, cioè d’aver capito veramente che solamente a me stesso devo render conto; ad esempio, “Mia superstar” è una canzone che è venuta in quel momento.

Tema portante dell’album è l’Amore. Ma non è solo l’amore di coppia. Che tipo di amore è quello a cui ti riferisci?
La tua avventura più amata?

L’amore che viene descritto in “Amore di ogni mia avventura” -ma poi anche in altre canzoni del disco- è inteso come quella forza, quella risorsa che abbiamo e che ci permette di affrontare ogni cosa nella vita, gioia o dolore che sia. È quindi un tipo di amore che non può essere circoscritto solo a quello tra due persone, ma che deve esser esteso anche ad altre cose, come alla vita.
L’amore che intendo io è quello che ti accompagna in ogni vicenda dell’esistenza; bisogna poi avere il coraggio e la forza di non aver paura davanti agli ostacoli che ti si pongono davanti. E con questo tipo di amore potrebbe essere più semplice.

Nell’album “In ogni forma” ti sei definito “uno che scappa sempre da ogni storia che lega le caviglie”. Eppure oggi parli d’Amore. Hai trovato nel frattempo quello con la A maiuscola e ti sei convertito al suo potere?
Non è che mi sono convertito, chiaramente; ma è altrettanto chiaro che ogni canzone non racconta la vita intera, ma solo un periodo, una sua fase. È ovvio che nella vita le cose cambiano, però il concetto dell’amore che è descritto in “Amore di ogni mia avventura” non è diverso da quello di “In ogni forma”; né più né meno, entrambi i pezzi raccontano una storia ed il mio ruolo in quella specifica storia, caratterizzato sempre dalla libertà di fare qualsiasi cosa, rimanendo tuttavia costantemente nella posizione di una persona che ama.
Senza contare che il fatto che c’è chi scappa sempre da chi gli lega le caviglie è vero; è sicuramente autobiografico, dato che prima ero una persona che scappava da quella tipologia di storia. Però credo sia un atteggiamento comune!
Il concetto dell’amore resta sempre lo stesso per me, rimane cioè in ogni caso il motore che mi permette di affrontare qualsiasi situazione.

Ma torniamo a questo ultimo tuo disco. “Altre mani su di me” racconta la fine di una storia, in “Mi sembra ancora” richiami a gran voce qualcuno di importante ma che non è più con te. Nell’amore c’è anche, naturalmente, questo aspetto. Tuttavia non si percepisce mai malinconia nei tuoi pezzi. Come ti poni davanti alla fine naturale delle cose?
La mia è sicuramente una visione positiva delle cose, vedo tutto dal lato illuminato, cerco di mettere la positività in ogni cosa che vivo. Ho sempre vissuto così; accetto le cose, sempre, gli eventi, compresi quelli brutti. Come un ulteriore insegnamento, come un’altra esperienza da vivere per poter incrementare la propria vita con le cose che ti sono accadute, anche se brutte; questo, tuttavia, non vuol dire vivere le cose con candore. Sono consapevole che le cose non dipendono da me e che non posso gestirle totalmente, per cui mi metto al di sotto degli eventi e li vivo con attimi di inconsapevolezza e consapevolezza insieme, dipendenti entrambi proprio dalla mia impossibilità gestire completamente la vita.
Prendo tutto come un insegnamento, come un’esperienza, da poter in ogni caso trasformare in qualcosa di positivo; in fondo è anche un modo per riuscire a stare meglio, no? Perché, in fondo, se si riesce a dare una spiegazione anche alle cose brutte, anche se non ci si rassegna, si vive meglio, razionalizzandole ed acquisendole.
In “Per un solo respiro”, dici di ascoltare sempre il colore dei sogni. Per te che colore hanno i sogni? Quali sono i tuoi?
Il colore dei sogni dipende da quello che ognuno di noi dà alle proprie aspirazioni; secondo me, quando ci si immagina qualcosa, la si immagina con un colore ben definito, o con più colori; in ogni caso credo la si veda come un’immagine bella, dato che la si desidera. Il consiglio che do nella canzone potrebbe essere: “Ascolta l’arcobaleno”, un invito ad ascoltare sempre il meglio dei sogni e dei colori.
I miei sogni, invece, hanno tanti colori; se te ne dovessi dire uno…blu? Rosa? In ogni caso un bel colore!

Anche in questo album, hai canzoni ironiche accanto a canzoni profondamente intime. Credi sia questo il giusto mix nella vita? Ironia sempre, semplicità negli approcci e contemporaneamente però non superficialità?
Si, credo di si; secondo me una persona deve avere i propri momenti di profondità, per poter mantenere un contatto con se stesso ed avere una propria intimità, analizzando e vivendo in maniera personale quello che ha intorno, evitando così di prendere tutto in maniera scontata. Allo stesso tempo, però, non bisogna essere troppo seri, bisogna molto ironizzare e giocare con la vita; credo questo sia un aspetto fondamentale. Bisogna prendere tutto ciò che c’è ed imparare.
Ed in fondo è quello che dico nelle mie canzoni, dove c’è sempre, specie nelle canzoni più “intime” l’elemento positivo; naturalmente, dopo tanta “intimità”, ho bisogno anche di cose divertenti, per cui ironizzo su molte cose.

L’album è uscito a maggio, ma le tue canzoni non sono prettamente “estive”. Sei molto coraggioso o semplicemente folle????
Penso che la musica non vada a stagione, deve andare bene d’estate come d’inverno. La musica è musica, non stiamo mangiando qualcosa -come la polenta d’estate!-.
La musica è importante, è cibo per l’anima; e l’anima non va in vacanza.
Secondo me bisogna sempre avere accanto della buona musica, dei grandi messaggi. Ecco perché siamo usciti con un singolo che non ha niente di “estivo”, inteso come elemento caratterizzante le canzoni estive del panorama musicale.
È stata una scelta più o meno coraggiosa, che in ogni caso avevamo già intenzione di fare e che sapevamo ci avrebbe portato a non facili percorsi; però noi facciamo musica, non canzoni fatte per essere passate alla radio e poi basta. Poi, è ovvio, che se passano ed hanno successo è un altro discorso, ma non è questa la ragione principale delle nostre scelte musicali.
Voglio parlare alle persone e voglio aiutare le persone a riflettere, senza preoccuparmi troppo se poi passeranno il mio pezzo in radio o meno.

A proposito di coraggio, nell’album hai immesso un pezzo intitolato “Se Moana ti vuole”; come mai questa scelta strana?
Perché Moana Pozzi? È stato un caso. Io, ovviamente, non l’ho mai conosciuta, quando era nel pieno della sua carriera, perché ero molto piccolo. Poi, quando è morta, cominciavo a vivere gli omaggi che le facevano in televisione e mi è capitato spesso di vedere i servizi che la riguardano; e lì mi sono incuriosito molto sulla sua personalità e mi sono andato a documentare. E poi, automaticamente, mi è venuta la canzone. Non è un omaggio a lei e basta, la canzone narra di me che sono con lei, che vado a scuola con lei, etc, mi sono immaginato una storia con lei.

“Non credo nella politica e non credo nelle mezze verità”dici in “Mia superstar”. Sembri disilluso, nonostante nell’album questo tipo di sentimento non traspaia. A cosa crede Mauro Di Maggio a questo punto?
In effetti non credo nella politica e non credo nelle mezze verità. Credo in me. E questo per ricollegarmi a quanto ti ho detto poco fa su questo ultimo mio lavoro; credo in me perché solamente in me posso credere per poter poi portare avanti qualsiasi cosa ed eventualmente coinvolgere anche altre persone.
Posso ispirarmi alla politica, perché non sono contro di essa, ho votato, ho le mie idee politiche; tuttavia, prima di affidarmi a qualcuno devo poter avere chiaro, capire, che le sue mosse sono giuste.
Questo non vuol dire mantenere in ogni caso un’idea invariata, dato che ci sono sempre mille cose che te la possono far cambiare; l’importante, però, per me è intanto avere l’intenzione giusta, poi si vedrà come andrà.

Nei ringraziamenti, tra i molti nomi, ringrazi Totò, Troisi e Sordi. Perché questi nomi?
Perché sono dei grandi attori, dei grandi personaggi che amo e che hanno fatto parte della mia vita; e non potevo far altro che ringraziarli. Amo Troisi, amo Totò, amo Sordi; naturalmente, amo anche altri personaggi.
E poi mi faceva piacere anche poter lasciare un piccolo ricordo loro. Così magari se un fan, una persona che va a vedere i miei ringraziamenti, non conosce le persone che sto ringraziando, può andare ad informarsi su di loro.
In fondo, oggi come oggi stiamo andando sempre avanti, e non è detto che una ragazzina di 15 anni sappia qualcosa di Troisi o di Totò; magari può essere che leggendo quelle mie quattro righe le venga la curiosità di andare a vedere chi fossero queste persone.
E’ un modo per mantenere vive certe personalità che hanno dato tanto e che vorrei ricevessero tanto anche dalle altre persone.

Infine ringrazi Dio. E “Nel cuore di ognuno” dici che “il cielo ci guarda e non è distratto nonostante sembri sia un astratto.” Il tuo rapporto con la religione?
Il mio rapporto con Dio è molto personale, nel senso che sento che esiste, sento la religione come forza, come aiuto e sostegno. Un po’ diverso, invece, è il mio approccio con la Chiesa come istituzione. Diciamo che non la sento come la vorrei.

Se potessi scegliere un artista con cui collaborare -o a un tuo progetto oppure ad un’esperienza musicale- chi sceglieresti e perchè?
Lucio Dalla o Ron; perché sono grandi personalità, mi piacciono molto. Lucio Dalla lo amo, musicalmente per me è uno dei più grandi. Poi è chiaro, ovviamente, che duetterei con tanti altri artisti, in ogni caso con chi potrebbe insegnarmi molto, con persone dalle quali potrei apprendere. Anche Carboni mi piace molto.
In ogni caso musica italiana; mi piace molto.
Anche in campo internazionale duetterei con i grandi nomi (come con il cantante dei Radiohead), però è ovvio che non succederà mai!

Hai un luogo, un paese, una città in cui ti rifugi per ispirarti?
No, veramente no. Non c’è un posto in particolare, anche se poi alla fine quel posto risulta essere casa mia dato che sto sempre a casa quando lavoro.
Tuttavia, può nascere ovunque un’idea, dipende dall’ispirazione del momento, magari capita anche in macchina!

A quando il tour live?
Sicuramente il tour partirà in autunno, con il secondo singolo, attraverso un percorso che faremo nei club, nei piccoli teatri. Adesso ci stiamo concentrando sulla promozione, cercando pian piano di costruire le tappe autunnali.
-Pezzo uscito a luglio 2006 su www.lineamusica.it-

21 giugno 2006

I Negramaro: l'intervista


Una lunga giornata di sole e tanta strada ancora da percorrere in macchina, alla volta dell’ennesimo impegno lavorativo. I chilometri sono molti, sia quelli alle spalle che quelli che li aspettano, come gli impegni del resto.
Di chi sto parlando? Della band italiana erroneamente definita “del momento” già un paio di anni fa: sei ragazzi pugliesi di Copertino, «convogliati in un unico progetto», i Negramaro.
Dall’esordio al Festival di San Remo nel 2005 -che ha premiato la loro Mentre tutto scorre con il Premio della Critica- ad oggi, ne hanno fatta di strada Giuliano, Danilo, Emanuele, Andrea, Ermanno ed Andrea.
Oltre ai numerosi premi -Nastro d’Argento nel 2006 come miglior canzone per Mentre tutto scorre, Premio SIAE all’edizione di San Remo di quest’anno- diverse sono state anche le collaborazioni con importanti artisti, come Andrea Bocelli, Paolo Fresu, Elio e le Storie Tese, Negrita.
Li incontro telefonicamente, proprio mentre si stanno recando ad Imola per l’Heinken Jammin Festival, palco sul quale dovranno cantare prima dei Depeche Mode.
Parlo con Danilo Tasco, batterista del gruppo, sul palco dell’edizione di quest’anno del Festivalbar insieme a Jovanotti per una rivisitazione rock del brano Falla girare, inserita nell’ultimo album di Lorenzo.
I Negramaro nascono nel 2000 e tu hai 25 anni, giovanissimo, come del resto anche gli altri componenti del gruppo. Non vi impressiona essere arrivati al successo così giovani, quasi quando si iniziano a fare i sogni sul proprio lavoro futuro?
Certamente la cosa è impressionante se si nota solo la rapidità con cui tutto ciò è successo. Nel corso degli anni c’è stata la consapevolezza di ciò che ci stava accadendo, ma anche la possibilità di vivere serenamente e con la massima libertà la nostra espressione. Tutto è avvenuto nella più normale quotidianità, sebbene a lungo andare “quotidianità” significhi anche ciò che non si decide autonomamente ti debba stare intorno.
Il fatto di aver vissuto tutto in una maniera così serena ci ha anche permesso di restare estremamente lucidi, qualità necessaria davanti agli impegni che ci siamo trovati ad affrontare e davanti al nostro pubblico, che è cresciuto davvero in maniera straordinaria (basta guardare il nostro funclub…uno specchio della società attuale!).
Ad un certo punto avevamo davanti un bivio: da una parte il farci schiacciare da tutta questa grandezza, dall’altra canalizzare lucidamente il nostro lavoro. Abbiamo scelto questa seconda ipotesi, perché siamo fermamente convinti di voler portare sempre più avanti il nostro progetto, mantenendo fermo l’equilibrio.
È fantastico quello che ci sta succedendo e cerchiamo di fare la nostra strada secondo quello che ci sentiamo di fare; siamo arrivati a fare questo, una cosa che per noi è importante, e abbiamo voglia di farla, senza precluderci nulla.
A proposito di portare avanti il vostro progetto, è da poco uscita la versione in spagnolo di Nuvole e Lenzuola. Vi volete aprire al mercato europeo -come del resto molti degli artisti della vostra etichetta, la Sugar- e conquistare tutto anche lì?
Di base c’è che ci divertiamo a tradurre le canzoni in altre lingue, è un gioco per noi, utile anche ad evitare di restare vittime del nostro lavoro e dimenticare il divertimento di farlo.
Sicuramente, poi, c’è anche la volontà di uscire dall’Italia, abbiamo voglia di mondo…e se vinciamo qualche cosa anche lì meglio!
Come mai una versione in spagnolo di questo singolo e non in inglese, dato che la vostra musica si ispira di più al pop-rock anglosassone?
Lo spagnolo per diversi motivi; innanzitutto, in quanto gruppo autoriale amiamo tutto ciò che evidenzia questo genere di canzone; lo spagnolo, indubbiamente, lo fa. Secondo poi lo spagnolo ha sottolineato la passionalità della musica dei Negramaro..credo che in inglese sarebbe risultato tutto, invece, un po’ più appiattito.
Senza sottovalutare il fatto che, al di là di questo aspetto “caliente”, lo spagnolo è la seconda lingua più parlata al mondo..
Hai appena definito i Negramaro come un gruppo autoriale; il vostro stile ed il vostro sound come li definiresti?
Dovessi racchiudere tutto in una parola ti direi rock d’autore con una matrice particolare. Il rock è un vestito che si va a dare ad una canzone che può funzionare anche semplicemente con chitarra e voce o con un pianoforte ed una voce. Basta avere questi due e si ha il rock, cu, sei si aggiunge la canzone d’autore, si ha il sound della nostra band.
I vostri testi sono “complessi”, sicuramente non da “canzonetta leggera”, nonostante il ritmo della vostra musica, tuttavia, permetta una facile memorizzazione e sia estremamente piacevole. Una scelta voluta questa differenza netta tra sonorità e parole? Avete appositamente scelto in un secondo momento di combinare i testi un po’ più complessi di Giuliano con una musica più orecchiabile, proprio per far arrivare prima il vostro messaggio, oppure no?
No perché, innanzitutto, non vediamo questa dicotomia tra testo e musica. Inoltre, tutto quello che facciamo non lo facciamo mai nell’ambito di scelte, ma nella maniera più viscerale, più spontanea e naturale possibile. Viva la spontaneità! Senza contare che, se il risultato funziona perché gli ingredienti sono stati quelli giusti, nel momento in cui ci si siede a tavolino con gli stessi ingredienti in mano, sicuramente non si riuscirà ad ottenere risultati perchè si sarà tenuta a bada la libertà.
Per quanto riguarda i testi, invece, non credo siano così difficili; secondo me la loro magia sta nell’andare a toccare e a parlare di qualcosa di universale, mettendo però in luce le cose più spicciole.. perché quando vuoi arrivare a più persone, automaticamente c’è un testo semplice -che apparentemente può sembrare complicato e parallelamente vuoto, solo un suono di parole-, ma che poi fa subentrare la libertà per chi ascolta di metterci dentro ciò che ha di suo, facendo uscire ciò che la musica arriva a fare, dare cioè qualcosa in più a una persona, facendole notare quello che aveva dentro.
Per quanto riguarda invece il sound, il tutto non si poggia su delle scelte ben precise, non ci sono decisioni a monte; i Negramaro sono tutti diversi tra loro e le varie differenze convogliano tutte insieme.
Negramaro come un vino. Oltre all’omaggio al vostro luogo di “nascita” -una cantina di Copertino- e alla vostra terra, è anche un messaggio per i vostri fan? Come il vino, il vostro prodotto matura e diventa migliore?
Il nome è stato scelto partendo dal fatto che ci piaceva il suono della parola stessa; in un secondo momento si è aggiunto anche il rapportare le nostre origini salentine -che nella nostra musica sono assenti- volendo simbolicamente aggiungere qualcosa di noi.
Il parallelismo di cui parli tu, effettivamente, è una delle tante cose che la gente stessa può fare; esiste la libertà della propria interpretazione, per cui la tua potrebbe essere giusta e funzionare.
L’importante perché una cosa funzioni è che ognuno ci possa mettere ciò che vuole.
Al Galà del Festivalbar ti abbiamo visto suonare la batteria con Jovanotti per il brano Falla girare. Come è nata questa collaborazione?
La collaborazione con Lorenzo è nata per caso, come tutte le altre collaborazioni con altri amici. Con Lorenzo il primo ponte è stato creato quando abbiamo accompagnato Saturnino; poi, in occasione della festa di presentazione del dvd di Lorenzo a Milano, i nostri rapporti si sono rafforzati. Qui, come in tutte le altre collaborazioni, c’è stata la voglia di fare e di fare qualcosa di diverso, una nuova band per dare un nuovo taglio al progetto SoleLuna e alla canzone, un esperimento un po’ ibrido che, tra l’altro, ha funzionato tantissimo dato che ha avuto una grande e bella risposta.
Il collettivo SoleLuna è stato contaminato dalla presenza di individui così diversi tra loro, partendo dall’idea di una band speciale per quella occasione.
Ti sei sentito più turnista o più parte del gruppo suonando con Jovanotti?
Parte del gruppo sicuramente. Come ti dicevo prima, c’è stata la voglia di creare qualcosa di speciale, in cui ognuno apportasse la propria individualità e specialità all’interno di un progetto diverso. Ed abbiamo fatto un gruppo, inteso come più persone accomunate dalla stessa idea.
Il tuo playning è cambiato rispetto alla canzone con Jovanotti? Hai dovuto cambiare set tra le due situazioni sia per le dimensioni dei tamburi che dei piatti? Se si quale?
Fermo restando che il mio loop è decisamente rock e che la canzone stessa è rimasta con questo tipo di taglio, il mio set, già normalmente ridotto al minimo, è stato ulteriormente diminuito, per cui ho suonato solo con piatti e tamburi.
Tra la fine di giugno e i primi di agosto avete ancora altre date in concerto, tra cui quella del 29 luglio a Roma all’interno della manifestazione Luglio suona bene all’Auditorium Parco della Musica. E’ previsto anche un tour autunnale o vi dedicherete alla composizione?
Non è un tour questo che stiamo facendo e che termineremo, appunto, ad agosto; è più un ultimo giro di saluti, per poi, in effetti, fermarci in autunno per comporre qualcosa di nuovo.
Quale credi sia il “segreto Negramaro”, quello della loro forza così dilagante?
A saperlo!Hai un’altra domanda???

Tra le molte attività della band -o ad essa collegate-, inoltre, Lu Forum, il nuovo sito creato dal loro fanclub, da pochi giorni online. Suo obiettivo è riunire l’energia dei fan, convogliandola verso il sociale. Ad esempio sostenendo i Negramaro nell’importante progetto 6 Villaggi per il 2006, promosso da Sos Villaggi dei Bambini, un’organizzazione internazionale di assistenza e cura dell’infanzia, impegnata nella costruzione di sei villaggi di accoglienza in Brasile, Messico, Nigeria, Sudafrica, Vietnam ed Ucraina. Per tutti i loro fan, infatti, basterà acquistare su eBay gadgets ed altri oggetti da loro autografati, contribuendo così economicamente al fondo per la costruzione dei villaggi.
È inoltre possibile farsi sostenitori di questa campagna donando 1 euro via sms solidale tramite invio al numero 48583 da rete mobile TIM, Vodafone Italia, Wind, 3 Italia, oppure donando 2 euro con una chiamata da rete fissa Telecom Italia allo stesso numero.
Per ulteriori informazioni, www.negramaro.net
-Pezzo uscito a giugno 2006 su www.lineamusica.it-

20 giugno 2006

Intervista a Sergio Sivori



Sono circa le 18 quando busso alla porta di un piccolo teatro nel quartiere di Monteverde di Roma. Mi viene ad aprire Sergio Sivori, che tramite un amico (che ringrazio ancora tanto!), ho avuto la possibilità di incontrare per parlare di alcune iniziative interessanti portate avanti dall’Associazione Claudio Gora, fondata circa 9 anni fa da lui, Cristina Giordana, Luciano Faraone e Paola Montecchiani. All’interno del teatro si sente l’odore del nuovo, ma nel contempo si respira la magia di uno di quei locali antichi, in cui il legno trasuda gli odori dei personaggi che vi hanno vissuto e respirato per lungo tempo. Eppure, il Laboratoriumteatro ha una vita davvero breve; è stato, infatti, inaugurato agli inizi dello scorso dicembre, proprio per volontà dei soci fondatori dell’associazione dedicata al grande attore e regista scomparso nel 1998.
Dopo una visita al teatro, Sivori mi fa accomodare in quella che diventerà per le successive due ore la sede della nostra chiacchierata, una stanza proprio di fronte un vasto spazio rettangolare, all’interno della quale sono stati inseriti anche i camerini. È la sala training. Immancabile, pertanto, la sua spiegazione sull’utilità di questo spazio, nel rispetto dei dettami generali alla base dell’Associazione stessa, intitolata a Claudio Gora «per una questione di affetto nei confronti di un certo tipo di teatro, di un certo tipo di cinema, sebbene sostanzialmente, tuttavia, sia stato lui l’ispiratore di questo gruppo». L’Associazione, mi spiega infatti, «persegue degli obiettivi ormai poco ravvisabili, in disuso, che sono quelli di rimettere in discussione il processo di training quotidiano per arrivare poi anche al discorso performativo, in grado di emanare segnali sperimentali verso l’esterno». Tuttavia, Sivori ci tiene a precisare che quello che a loro interessa di più è «creare un gruppo più vasto di quello che attualmente è, con degli attori che sono in grado di, in un certo senso, uscire fuori dalla quotidianità, attraverso un mutamento del corpo, un segnale preciso di un’arte che si differenzia dal quotidiano. Pertanto -prosegue- abbiamo messo in moto un meccanismo molto rigido, scelto, pedagogico, perché chi partecipa sono quelle “persone di altro tipo”, e questo, ovviamente, ci permette di fare una selezione, al fine di individuare delle persone adatte allo scopo, il che non vuol dire che tutto parta da un dato fondamentalmente di “predisposizione”, ma piuttosto dall’individuazione di coloro che sembrano essere più malleabili verso un processo evolutivo». Scopo principale dell’Associazione, infatti, è portare avanti una realtà «che può essere orgogliosa di dirsi di ricerca, perché -come continua a spiegarmi Sivori- la ricerca non è un modulo performativo, è il campo dell’indagine dell’attore; è, quindi, una cosa segreta, in cui l’attore fa delle cose che non sono visibili all’esterno. Ciò che è visibile all’esterno è il campo della sperimentazione, cioè la messa sotto forma di rappresentazione della sperimentazione frutto della ricerca, per poter, così, provare e verificare se quello a cui lavoriamo ha effettivamente un risultato, corrisponde a quello che ci siamo prefissi». Inevitabilmente, questo è un processo lunghissimo, cui ci si deve dedicare anima e corpo, che richiede un’enorme disponibilità, «un’abnegazione verso un sistema di cose che non fa riferimento al modo convenzionale».
Se, infatti, spesso in teatro si assiste alla riunione di un gruppo di attori, all’assegnazione dei ruoli e alle prove dello spettacolo prescelto per esser rappresentato (e che il più delle volte, poi, sono limitate ad un periodo non lunghissimo), per Sivori tutto ciò riesce a raggiungere il solo scopo performativo, quello cioè di mettere in scena, ognuno con il proprio ruolo, un detto spettacolo. L’Associazione Claudio Gora, invece, parte da un’angolazione diversa, quella che vede al centro l’attore, che, una volta scelto l’autore a lui più consono, deve «ricreare una drammaturgia partendo dalla propria arte, e non dall’arte del drammaturgo».
Il che pone, ovviamente, anche delle difficoltà oggettive, perché l’attore «non si può più esprimere come nella vita» e, quindi, creare anche una sensazione al pubblico di assistere a un qualcosa di immediatamente identificabile. Cura dell’attore deve essere, invece, riuscire a mettere in contatto il pubblico e mettersi in contatto col pubblico, invitandolo a condividere non solo l’evento performativo, ma anche una propria partecipazione emotiva; «il pubblico deve esser messo in condizione di rispondere all’attore e di associare all’evento determinate cose che fondamentalmente non c’entrano con l’evento».
L’immaginario soggettivo che si ripercuote su quello collettivo; la memoria collettiva che interagisce con la memoria soggettiva. Se, infatti, la memoria collettiva è attivata dal dato principe che è lo spettacolo, quella soggettiva verte in maniera profonda su ciò che rimanda ad altro e che, quindi, non è visibile. Tutto ciò, pertanto, dipende dall’invito che l’attore presenta al pubblico, invito così risultante solo dopo un lungo lavoro sulla propria arte e sul proprio ruolo di attore. Tale lavoro costituisce proprio il training, non pensato per migliorare le prestazioni dell’attore nel senso qualitativo, ma piuttosto come mezzo «per arrestare l’invecchiamento dell’attore, per superare quegli ostacoli ai quali l’attore è soggetto e con cui fa i conti continuamente». Riuscendo a superare le problematiche relative alla postura piuttosto che alla gestualità o all’impostazione della voce, l’attore che fa su di sé un lavoro di training «si trova quasi in uno stato di trance», dettato dal superamento di tali problematiche grazie alla conoscenza dei principi che ne stanno a monte e che non necessariamente conducono ad una medesima forma espressiva.
Il teatro kabuki, quello balinese e quello katakali ne sono la conferma, del resto. Puntualizza, però, Sivori che, purtroppo, da occidentali vediamo questo tipo di teatro come «qualcosa di folkloristico» e non come «espressione di una grande forma d’arte»; fondamentalmente, infatti, il teatro, per l’immaginario collettivo è una struttura, un edificio, per cui ne riconosciamo l’esistenza se vediamo l’edificio “teatro”. Invece il teatro esiste in quanto esiste, è in noi. «Allo stesso modo, alla parola tradizione viene associata l’aggettivo “antiquata”; tradizionale è, invece, che la ricerca è fortemente ancorata alla tradizione. Il teatro moderno non è ancorato alla tradizione, perché ne disconosce i principi, e laddove lo fa o pretende di farlo, si ribella a livello formale, e quindi nasce, come ad esempio negli anni Sessanta o Settanta, l’avanguardia, che è un discorso performativo-politico».
La ricerca, invece, non è questo; «la ricerca è un campo di indagine unicamente legato alla figura dell’attore». Tuttavia, questa parola viene comunemente legata a qualcosa di enigmatico, che va a giustificare l’incomprensibilità di una rappresentazione da parte dello spettatore; in realtà, spiega Sivori, non è così, dal momento che la «ricerca è un qualcosa che nasce con l’attore e muore con la morte fisica dell’attore, paragonabile alla ricerca di uno scienziato. Ciò che è visibile è il risultato finale, ma se si ha davanti davvero un ricercatore scientifico, non si può separare la sua figura con quella dello sperimentatore che è sempre in laboratorio, con camice bianco ed ampolle, il cui agire è finalizzato alla scoperta di un rimedio contro un morbo piuttosto che della posologia di una nuova medicina. La stessa cosa vale per l’attore che fa su di sé un lavoro di ricerca. È ovvio che il campo di ricerca dell’attore è un campo stranissimo, in cui l’attore è goffo, fa delle prove, ma prova a fare delle cose per giungere a un risultato che è intimo. E’ questa la ricerca: coltivare per andare avanti».
Per Sivori, inoltre, il teatro di ricerca ha un altro dato “benedetto”, ossia il morire con chi lo fa, il suo non essere tramandabile e non trasportabile in un’altra dimensione di ciò che è. Eugenio Barba dice: «L’eredità di noi stessi a noi stessi», cioè l’eredità di noi a noi stessi, non c’è un’eredità che si può trasmettere.
Tuttavia, il problema più in generale, secondo lui, è che «il teatro non ambisce all’opera d’arte»; non avendo questa ambizione -come la pittura, la scultura, la musica o la lirica-, «si traduce ad opera d’arte uno scritto, una realizzazione importante, che quell’autore ha creato», senza però poi porre attenzione allo spettacolo, alla performance, che, tuttavia, «necessita di collocarsi in qualche modo in quell’ambito per sublimare se stessa, per avere un senso». Oggi, però, il teatro non ha questo scopo, per cui viene minacciato dalla televisione o da altre cose; «se solo il teatro prendesse le distanze da tutto ciò avrebbe più chances».
Egli è, infatti, fermamente convinto che il teatro debba esser fatto da pazzi, «perché bisogna sempre avere la presunzione di fare un’opera d’arte, a prescindere da quello che ne uscirà fuori. È come se chi va a studiare presso un conservatorio di musica partisse dall’idea di voler fare il violinista di fila; inevitabilmente, non riuscirebbe a raggiungere il suo obiettivo». Del resto, è un dato di fatto che i virtuosi nella storia sono sempre pochi.
«Di conseguenza, se il teatro rincorre il cinema perde inevitabilmente, perché i mezzi del cinema sono diversi, la possibilità di saltare da uno spazio tempo a un altro -e sto parlando dell’elemento filmico-, il teatro non te la può dare, quindi esso deve ritornare a una dimensione di artigianato, dove ambisce all’opera d’arte proprio in quanto ha la possibilità di farlo».
Tuttavia, prosegue, «bisogna fare una scelta oggettiva; quando la pittura riproduceva la realtà -ed erano i grandi pittori che lo facevano, quelli con una tecnica, come Raffaello o Michelangelo-, essa era frutto del lavoro dei “fotografi” dell’epoca. Quando è nata la fotografia, la pittura non è morta ma si è liberata da questo, è nato Picasso, quando è nata la fotografia. Quando è nato il cinema, anche il teatro avrebbe dovuto liberarsi dalla riproduzione della realtà, ma nei fatti ha subito il tutto come un’aggressione, una minaccia, perché chi ha pensato che il primo fosse pericoloso per il secondo non l’ha realizzato prima che quest’ultimo soccombesse, ma dopo, tant’è vero che la televisione e il cinema hanno dovuto vivere del supporto degli attori di teatro, perché nessun altro sarebbe stato in grado di farlo. Il più del cinema e il più della televisione è stato fatto con gli attori di teatro. Dopodichè il cinema e la televisione hanno proseguito sulla strada del naturalismo che deve restituire quotidianità, in cui la gente vuole riconoscersi, mentre il teatro, invece di conservare e capire che il suo compito era finito in quell’arte -e che quindi avrebbe dovuto ritirarsi e continuare verso un’evoluzione lavorando sulla extra-quotidianità-, è rimasto ancorato al passato. Doveva rendersi conto che il teatro, la televisione e il cinema sono arti completamente diverse; il problema, infatti, nasce quando queste cose vogliono confluire e vogliono esprimersi. Sono strade completamente diverse, sulle quali non conviene mai fare paragoni perché sono delle cose differenti».
Al di là dei parallelismi con altre forme di spettacolo, il discorso ritorna sulla ricerca e su quanto e in che modo essa abbia contato nei tre spettacoli prodotti dall’Associazione Gora fino ad oggi, ossia in “L’ultimo giorno”, “Amen” ed “Elisabetta e Limone”.
Le scelte, aggiunge Sivori, sono state diverse tra loro nei confronti delle tematiche, però gli attori erano sempre «in una certa dimensione». Questi tre progetti sono stati da lui posti sotto l’egida dei "I teatri della crudeltà", da non confondere con il teatro della crudeltà. Tuttavia, a suo dire, in qualche modo i teatri della crudeltà hanno agito in un teatro della crudeltà, «perché l’attore è diventato quasi crudele verso se stesso nell’esporsi generosamente, trovando un meccanismo attraverso il quale è potuto arrivare ad un estremo», come, del resto, intendeva Artaud.
Il primo dei "Teatri della crudeltà" è stato il frutto della rivisitazione da parte di Sergio Sivori del testo di Victor Hugo (“L’ultimo giorno di un condannato a morte”), rivisitazione dettata dalla necessità di focalizzare l’attenzione sugli ultimi momenti di un condannato a morte -e al di là anche della tematica politica e sociale, sebbene essa fosse in ogni caso presente, dato che il progetto è stato patrocinato anche da Amnesty International e dall’associazione Nessuno tocchi Caino-. Non potendo sapere quali emozioni in effetti chi si trovi in quella condizione possa provare, Sivori era, a suo dire, «curioso di sapere come un attore può affrontare questo in una dimensione diversa, fatta di azioni fisiche e non di tracciati, come dire, ipotesi che partono da un suggerimento drammaturgico». E così è nato “L’ultimo giorno”.
È stata poi la volta di “Amen”, anch’esso ispirato da un racconto di Federico De Roberto e forse ancora più “crudele” del precedente; spiega, infatti, Sivori che in quest’opera la storia non ha fondamentalmente importanza, ma ha importanza piuttosto una serie di sensazioni che il pubblico può provare rispetto a quello che l’attore riesce ad associare. Pertanto, è in questo senso crudele, sia verso l’ attore che verso il pubblico, perché porta quest’ultimo ad essere esasperato dalla partecipazione, avendo sempre la sensazione di non essere al sicuro, con le proprie emozioni eternamente bloccate al culmine e la tensione derivante dal desiderio di farle giungere, finalmente, a una mèta precisa. «Era forte, emotivamente richiedeva di partecipare».
L’ultima opera dei "Teatri della crudeltà" è stata, invece, “Elisabetta e Limone” di Rodolfo Wilcock.
Attualmente Sivori sta lavorando, invece, ad un progetto ispirato a “Quartet” di Henri Muller. «È un progetto al quale tengo molto perché sono tanti anni che penso di fare questo lavoro; Muller rientra nei pochi che hanno saputo sintetizzare con la scrittura la sperimentazione e la ricerca. Ti lascia libero di fare quello che intendi fare. Anche in questo caso, la descrizione della storia non è quello che mi interessa, ma piuttosto lo è la modalità. È la modalità di decadenza dell’uomo, dove tutto è rarefatto, tutto diventa rocambolesco, terreno, in cui tutto questo si mescola come in un grande caos quasi biologico, dove tutto assume una forma che tende verso la morte fisica. Dovendo sublimare ciò che mi interessa, gli attori si trovano bloccati in una dimensione di mobilità nell’immobilità, che vorrei rendere proprio come nello spartito. E se io intervenissi, creerei delle dissonanze in termini di fruizioni, non permetterei di ascoltare questa musica. Ecco perchè in questo ci muoveremo molto lentamente; desidererei arrivare lì in quel modo, partendo da uno scritto che non intendiamo mutare».
Perché «se il teatro è un atto d’amore, deve essere libero come quello».
-Pezzo uscito il 09/11/06 su www.teatroviviani.it-

14 giugno 2006

Il notturno di Neffa



«Il silenzio rotondo della notte
sul pentagramma
dell'infinito.
Me ne vado nudo per la strada
carico di versi
perduti».




Sembra essere il protagonista di questa poesia di Gabriel Garcìa Lorca, Giovanni Pellino, in arte Neffa, nel suo ultimo lavoro, "Alla fine della notte", edito dalla BMG Sony ed uscito lo scorso 9 giugno.
«Alla fine della notte non è un concetto cupo, anzi, è il momento della giornata per eccellenza, quando tutto si è spento; è un momento durante il quale il confine tra la realtà e il sogno è veramente molto sottile, un momento che mi ha sempre molto affascinato, in cui c’è la sospensione del sole e della luna, gli attimi si dilatano e i sogni sembrano veramente vicini alla realtà quotidiana.
Poi, la città si ripopola e tutto ricomincia daccapo».
Spiega così Neffa il suo ritorno sulla scena musicale dopo tre anni di silenzio, anni nei quali ha fatto un po’ pace col mondo, risolvendo certi suoi aspetti personali e tornando con una serenità ed una calma, tipici, per l’appunto, della lucidità notturna.
Un album il cui riferimento letterario a "Le porte della percezione" di Aldous Huxley non è casuale.
«Questo album rappresenta un tentativo di lottare contro l’idea del nostro futurismo, del nostro stile di vita attuale. Sono nato negli anni dell’uomo sulla Luna e, crescendo negli anni Settanta, ricordo che le nostre previsioni sul futuro erano più sullo stile Giulio Verne, con invenzioni tecnologiche strabilianti, che ci avrebbero permesso di andare su altri pianeti.
Ora, invece, mi sembra che il futuro -e il futurismo soprattutto- si siano più spostati dal corpo alla nostra mente, che il futuro ci voglia entrare in testa e confonderla, farci diventare delle macchine. Ho cercato di stare dietro a questo mondo che ci vuole così, presenti e cattivi, però non ci sono riuscito. Credo che qualsiasi forma di pensiero sociale debba avere come fine ultimo la felicità, non l’essere adeguato in ogni circostanza, o l’essere sempre al passo coi tempi, creando, così, solo dei consumatori.
Voglio essere una persona, non sono un consumatore. Questo penso sia il metro di giudizio americano, che va bene per loro, che sono di un’altra cultura; per gli italiani, no, perchè sono altro. Purtroppo, invece, tendiamo a vivere la superficialità di questa vita moderna.. ed alla fine il tutto si ritorce molto nello stile di vita.
La musica adesso è più un gadget da patatine, non è più Arte. Purtroppo chi tratta l’Arte, invece, spesso ne parla in funzione del botteghino; nonostante gli italiani siano un popolo che ha già in sé il germe dell’Arte, sembra che adesso noi siamo la colonia di altri popoli, che la produzione artistica italiana venga trattata come un figlio minore.
Ed il tutto, poi, si riflette anche nella produzione dei cantanti italiani.
Ma per me non è così. Sono preoccupato dal nostro “futurismo”, ossia dalla nostra proiezione del futuro, più che dal futuro stesso. Questo disco nasce proprio con l’esigenza di comunicare l’utopia dell’umanesimo.
Siamo ancora persone libere, dopotutto, in grado di reagire non per stati d’animo indotti, e di vivere e scegliere senza percorsi obbligati».
Dodici canzoni nate per la maggior parte a Formentera costituiscono il suo notturno moderno; in pezzi come "Venere" , "Vieni appena vuoi" o "Tanta Luce", ha sperimentato sonorità gospel e soul, mentre "Il mondo nuovo", nonostante l’apparente orecchiabilità del suono, ha un testo complesso, motore della riflessione di questo album.
«Credo sia un pezzo particolare, che non necessariamente ti prende al primo ascolto -ho notato che ci sono persone che mi hanno fatto inizialmente un commento un po’ freddo e che poi dopo una settimana hanno alzato di molto il loro parere in senso positivo-.
Non ti nego, però, che credo sia il migliore pezzo che abbia mai fatto. E ci sono arrivato a 40 anni!».
Neffa resta e vuole restare ciò che è, senza compromessi con uno stile che non sente suo o con una commercializzazione della sua persona e della sua musica.
«Io -e non so bene quale sia il motivo principale- non sono disposto a fare delle cose che magari fanno altri; credo che il prodotto sia molto più importante del comportamento del cantante. Non mi piace questa "politica della musica"; trovo sia normale e giusto che un cantante sia ispirato, scriva il suo pezzo e lo metta su un cd, lasciando al pubblico, poi, la scelta e la possibilità di acquistarlo o meno.
Tuttavia, si tende sempre a mettere tutto in una scatola con l’etichetta; io stesso sono stato definito in molti modi (prima ero quello del rap scazzato, poi quello delle canzoni allegre ed ora sono quello che "non si capisce mai dove và"). Personalmente, ho una certa idiosincrasia per le etichette e faccio davvero fatica quando mi se ne affibbia una.
Dico solo che siamo in un paese in cui una hit negli anni 70 faceva 4 milioni di copie e adesso se ne fai 400 mila devi andare a piedi a Fatima! È palese che qualcosa non và. E quel qualcosa che non va non credo siano i cantanti, perché ce ne sono sempre state di diverse tipologie, ma ora si ha un netto spartiacque tra quelli che "fanno cultura" e quelli che "fanno marchetta". Perché non si può apprezzare semplicemente una forma d’arte? La maggior parte della musica italiana, ora, mi sembra veramente fatta con la riga e con la squadra. Ed io continuo a non voler essere un gadget da patatine.
Senza contare, poi, che per me la creatività è sofferenza, magari arriva un momento di particolarmente appagamento e la tua creatività un po’ ne risente. Ho sperimentato su di me che le cose migliori che ho fatto sono venute fuori dopo che ho sofferto come un cane. Così come mi è capitato di sentire delle cose che ho fatto in passato e di pensare che non erano un granché!
La mia creatività musicale l’ho sempre vissuta come una cosa un po’ particolare, cercando cioè di affinare la mia arte -o per lo meno di migliorare la mia canzone-, cercando allo stesso tempo di migliorare anche me.
Ho bisogno di emozione e di scrivere canzoni, non solo come artista ma anche come uomo.
Ed in questo senso "Il mondo nuovo" è stata una canzone che mi ha dato emozione. Dopo che ho fatto tre dischi come cantante e come rapper, e uno da batterista, non ti nego che questo album mi ha dato 20 secondi di orgoglio interiore!
La musica è fatta per stare dentro l’anima».
E l’ultimo lavoro di Neffa ne tocca sicuramente le corde.
-Pezzo uscito a giugno 2006 per www.lineamusica.it-

04 aprile 2006

Intervista ai The Black Heart Procession

Pall Jenkins e Tobias Nathaniel sono i The Black Heart Procession, un gruppo nata nel 1997 da una costola dei Three Mile Pilot di San Diego.
Dopo aver pubblicato il loro primo album, «One», nel 1998, l’anno seguente è stata la volta di «Two» e nel 2000 quella di «Three».
Tre album in tre anni, intesi come un album unico, una trilogia di un medesimo pensiero musicale ed artistico.
Dopo due anni di silenzio, eccezion fatta per tre pezzi incisi in vinile tra il 1999 e il 2001, pubblicano «Amore del Tropico», definito da loro «una sorta di concept ispirato ad un delitto per amore» e caratterizzato da suoni diversi rispetto a quelli precedentemente diffusi dal loro gruppo, con sonorità latine e ritmi diversi.

Per il prossimo 9 maggio, invece, è prevista l’uscita di «The spell», la loro ultima fatica, sempre con la Tounch and Go Records, produttrice di tutti gli altri album a partire da «Two».
Come mai avete scelto come titolo del nuovo album «The spell»?
Non potevamo certamente continuare a titolare i nostri album con dei numeri! Voglio dire, chiamarli «Four» o «Five» sembrava stupido… Avevamo, quindi, bisogno di cambiare. E volevamo scegliere un titolo per l’album che fosse adatto al nostro pensiero di adesso. Voglio dire, «The spell», l’incantesimo, era perfetto per rendere l’idea di quello che avevamo registrato e scritto.

L’incantesimo inteso nei confronti di una donna che vi ha stregato o nei confronti di una società che ci tiene come in un incantesimo?
L’incantesimo ha più una valenza politica, non è solo nei confronti di una donna, l’album parla molto di politica, poi ognuno lo interpreta e lo acquisisce come preferisce. Volevamo cercare di spiegare che ognuno è intrappolato in qualcosa, nel momento in cui ha un rapporto con un’altra persona, e quindi sia in una relazione con una persona che in altre relazioni sociali, come, appunto, in un incantesimo. A volte le persone si domandano come mai si trovino in delle situazioni scomode, come mai provino un senso di costrizione e volevamo rendere quest’idea di gabbia, di ragnatela, che, tra l’altro, è una parola che ricorre spesso nell’album. Rispondere, insomma, a domande di questo genere.

All’interno delle vostre canzoni molto malinconiche, nell’ultimo album c’è una canzone, «Places», in cui sembra che abbiate lasciato da una parte i sentimenti più tristi. Si percepisce, infatti, qui, la gioia di un bel ricordo. Come è nata una canzone come questa?
Per ogni persona una canzone trasmette un sentimento diverso, così come noi in ogni canzone ne vogliamo esprimere uno nello specifico. Volevamo far capire piuttosto cosa fosse il vero amore, cercando di viaggiare con la testa e ricordarci com’era.
E ci sono diversi posti legati ai ricordi, così abbiamo solo cercato di metterli insieme e lasciar sopravvivere le cose vere di un grande amore. Inoltre, se cerchi per molto tempo qualcosa, anche di negativo, quando la trovi ti ricordi subito il posto in cui l’hai trovata e ogni volta che ci pensi ci ritorni con la mente, anche se sei fisicamente lontano, tu viaggi fin lì. Toby, invece, a quanto pare l’ha interpretata un po’ più come me, come cioè voglia di «tornare in un posto dove siamo stati bene, che ci ha emozionato».

Ma tutti questi vostri “sentimenti disillusi”, che rasentano quasi la constatazione dell’assenza di un loro connotato positivo, a cosa sono dovuti?
Non credo i nostri siano sentimenti cattivi, è più romantica la cosa. Promulghiamo il vero amore, a tutto tondo. Ma ci sono tanti modi di interpretare le nostre parole, proprio perché noi parliamo di amore, senza specificare se è quello tra un uomo e una donna; in realtà il senso delle nostre parole è molto più politico che “sentimentale”.
Poi ognuno, però ed ovviamente, ci sente e ci legge ciò che più gli piace. La verità è relativa. E la voglia di controllare ciò che ci circonda prevale, in tutti i sensi. Come se, appunto, si fosse stregati in un incantesimo.

Qualcuno ha paragonato la vostra musica a quella di Cave e di Leonard Cohen. Il fatto di essere paragonati a qualcun altro è castrante per voi, a livello della vostra produzione musicale e nei confronti del vostro pubblico, perché vi fa sentire quasi obbligati a rispettare questa somiglianza, oppure no?
Sinceramente non credo che la nostra musica sia come quella di Leonard Cohen o come quella di Cave. Probabilmente il paragone l’hanno fatto a livello dei testi, dato che la loro musica è molto diversa dalla nostra. Forse, solo nei testi c’è una rispondenza, nel senso della malinconia e del modo in cui esprimiamo i nostri sentimenti e li mettiamo a confronto. Per cui non sentiamo alcun peso! Nessuno ha torto o ragione, torniamo al discorso della percezione della nostra musica; ognuno può riscontrarci delle somiglianze con altri generi musicali o con altri musicisti, ma in ogni caso noi non ci rifacciamo a nessuno in particolare.
Ovviamente abbiamo delle influenze personali, ma tutto ciò, per fortuna, non ci condiziona nella produzione musicale e dei testi. Noi cerchiamo in ogni caso di essere naturali, onesti e di fare il miglior prodotto di quello che sappiamo fare e vogliamo dire. Senza preoccuparci di rientrare o meno in una qualche catalogazione. E poi la cosa bella dei BHP è che, per fortuna, riusciamo ad avere una perfetta sincronicità nella creazione; sia io che Toby riusciamo a risponderci perfettamente nelle esigenze musicali e dei testi. Per cui magari nasce prima una musica con le note di Toby e poi un mio testo o viceversa; in ogni caso, tutto è in perfetta sincronicità. È una connessione.

Tu, Pall, scrivi tutte le canzoni e tu, Toby, suoni il piano. In più, però, suonate moltissimi strumenti, essendo pertanto dei polistrumentisti che si avvalgono, ogni tanto, della collaborazione musicale di altri amici o musicisti. E spesso e volentieri ci sono rumori di sottofondo che aiutano a creare l’atmosfera delle vostre canzoni. Quando fate i live, non trovate difficoltà sia a riproporre sentimenti così emozionali sia a ricreare l’atmosfera propria delle canzoni davanti al vostro pubblico?
Vogliamo che le persone si emozionino. Per cui, ogni volta che suoniamo dal vivo, cerchiamo di farlo. Essendo poi, la nostra musica, appunto, emozionale, in genere non riproduciamo esattamente la canzone come è registrata in studio, ma ogni volta apportiamo delle modifiche, sia perché in studio si possono fare degli arrangiamenti che dal vivo non sono possibili, sia perché le emozioni sono diverse e quindi vano rapportate alle singole situazioni. Ed anche alle emozioni del nostro pubblico.
A volte è difficile per noi riprodurre delle canzoni, magari perché non ti va di suonarle, ma “lo devi fare”, o magari perché in quel momento non ci ritroviamo con il sentimento della canzone, ma facciamo questo mestiere e queste sono le nostre canzoni, per cui, volenti o nolenti le dobbiamo fare. In più, appunto, spesso e volentieri, modifichiamo in corso d’opera le canzoni stesse, andando ad interagire sia con i nostri sentimenti che con il pubblico stesso.
Cerchiamo di fare musica, magari solo col piano, o insieme ad esso. Cerchiamo di riprodurre attraverso la musica ciò che sentiamo. E cerchiamo di divertirci, trovando anche qualcosa che sia appropriato sia alla musica in sé che al testo, cercando in ogni caso di fare il nostro meglio. È un po’ un esercizio sulle nostre emozioni; a volte è una battaglie con esse, altre è perfettamente coincidente. Ma comunque, è il nostro lavoro.

BHP, come mai avete definito il vostro cuore nero? Perché feriti da qualcosa, per cui dal suo colore naturale, il vostro cuore si è macchiato o perché credete che sia proprio del genere umano possedere un cuore nero, quindi fondamentalmente cattivo?
In realtà, all’inizio, quando abbiamo rotto coi Three Mile Pilot, non avevamo un nome e cercavamo qualcosa di adatto per la band. A Toby, poi, piaceva molto l’idea di usare il termine processione, e anche molto quella di “cuori neri in processione”, persone, cioè, che sono in processione perché credono in qualcosa in comune per la quale sfilano. Senza contare che all’inizio avevamo un nome orribile, “The Couple”, che però voleva solo sottolineare il fatto che eravamo un insieme, vicini ed amici, ma, ovviamente, non era il nome adatto. Volevamo cambiarlo, così il giorno prima di un nostro spettacolo lo abbiamo fatto, trovando quello perfetto!

In un’intervista avete detto che il sound dei BHP è quello di «un uomo ubriaco che cammina senza scarpe»; ritenete che ancora adesso la vostra musica possa essere definita così?
Una domanda senza risposta….più o meno potremmo dire che la nostra musica ora è quella di un uomo senza gambe…!!!!

Dopo l’uscita di «The spell», i Black Heart Procession toccheranno con il loro tour alcune città italiane, come Bologna (il 9 maggio al Nuovo Estragon), Roma (l’11 maggio al tba) e Torino (il 12 maggio) all’Hiroshima.


-Pezzo uscito a aprile 2006 su www.lineamusica.it-

26 marzo 2006

Mystic Diversion

Allora Francesco, nasci come musicista negli anni Ottanta. In quegli anni la tua musica aveva la funzione di far ballare, divertire e distrarre. Poi hai accentuato la carriera di paroliere, dando, quindi, maggiore importanza alle parole. Infine sei passato alla musica ambient, in cui le parole ci sono, ma sono quasi superflue. È stata una evoluzione verso una musica più sensoriale o credi semplicemente sia più facile far produrre e far girare un prodotto “da accompagnamento” piuttosto che un testo impegnato od un genere dance fortemente messo in crisi dalla concorrenza statunitense e britannica?
Niente di tutto ciò! Credo che tutto sia musica, anche quella di generi diversi; ecco perché ho naturalmente cambiato i miei stili. È stato un processo naturale, i gusti sono cambiati con il tempo.
Inoltre, mi ero stufato di cantare e volevo scrivere musica. Sono un cantautore che canta le sue cose, ma che preferisce soprattutto fare il song-writer. Ed ho iniziato, quindi, a dedicarmi essenzialmente a quello, con la speranza che la mia musica sarebbe finita in un film. Ed invece, ha preso tutto un’altra piega!

In questo modo, quindi, si spiegano anche i diversi nomi che hai usato nel corso della tua carriera, da Mike Francis a Francesko a quest’ultimo.
Si, proprio per sottolineare l’evoluzione personale e della mia musica che ho portato avanti in questi anni.

Resta ferma, ad oggi, la tua attività di compositore ed autore per altri artisti?
Resta comunque presente la mia attività di compositore per altri, sostanzialmente perché è una cosa che mi piace fare. Sia nello scrivere che nel comporre, infatti, la soddisfazione è la stessa!

E cosa ti gratifica di più, comporre e pensare ad un prodotto per altri o per te stesso?
Come ti ho detto prima, piacendomi scrivere musica, lo faccio in ogni caso, a prescindere se è per me o per altri. È comunque qualcosa di bello per me.

Vanti collaborazioni con Ami Stewart e con I Ragazzi Italiani. A che si deve questa disparità di scelta?
Sia Amy che i Ragazzi Italiani sono state conoscenze derivanti da quella che allora era la nostra casa discografica, l’attuale BMG, che all’epoca era ancora la RCA. Il sodalizio con Amy è nato perché lei si era trasferita da poco a Roma e, lavorando con la mia stessa casa discografica, le era capitato di ascoltare alcuni pezzi della mia produzione. Le è piaciuta, ed è venuta fuori l’idea di fare qualcosa insieme.
Per quanto riguarda i Ragazzi Italiani, invece, loro hanno solo cantato le mie canzoni, scritte da me come autore e non specificatamente per loro; gli sono piaciute e quindi, le hanno cantate..

Rimpianti verso il passato? Pensi ci sia ancora spazio per te per quel genere di musica o l’hai superato?
Nessun rimpianto. Né rinnego quello che ho fatto. Tutta la mia produzione va vista dal punto di vista del naturale processo di evoluzione personale, dei miei gusti, del mio modo di esprimermi. Inevitabilmente, quindi, è un genere che ho superato, che non sento più molto mio.

Veniamo al presente: Mystic Diversion: perché questo nome?
Avendo in mente un progetto, necessitavamo di un nome da dargli. Volevamo trovarne uno che sottolineasse il nostro intento di costruire e fare una musica che prendesse ispirazione dalle musiche del mondo, nonostante, poi, fondamentalmente, la nostra musica abbia una base latina.

I Mystic sono tre: oltre te, tuo fratello, Mario, ossia Mari-One e Aidan Zammit; sei tu la mente e loro il braccio o componete insieme?
Nei Mystic io sono quello che scrive di più, ma tutti gli arrangiamenti sono il risultato di un lavoro comune, specie perché proprio gli arrangiamenti sono imponenti.

L’ultimo album, che uscirà il 31 marzo prossimo, si chiama «From the distance»; quali sono state le ispirazioni di quest’ultimo lavoro?
L’idea di fondo è che posti molto lontani tra loro si assomigliano, perché facenti tutti parte di un unico spazio. Oltre che con la musica, abbiamo cercato, quindi, di far risaltare questa idea attraverso le foto contenute nell’album. Il fotografo Salvo Galano, infatti, ha ritratto sia la meravigliosa isola di Ponza (amata, tra l’altro da entrambi), che il Venezuela e le Galapagos; eppure, sembrano tutte foto di uno stesso posto. Avevamo dunque ragione! Ed anche il titolo dell’album, poi, rientra in questo discorso.

Nel nuovo album collaborano con voi Wendy Lewis, Nadine Renee e i Farias. Com’è nata la vostra collaborazione?
Wendy vive a Roma e cantava come corista; la nostra collaborazione risale al primo album dei Mystic, «Crossing the liquid mirror». Ha una voce meravigliosa. Come, del resto, anche Nadine, conosciuta tramite Maurizio Altieri; a loro è piaciuto il nostro project e l’hanno, quindi, prodotto. I Farias, invece, li ho conosciuti a Roma, per caso.
Insomma, mai come nei loro confronti dire che è stato il destino a farci incontrare è esatto!

In «Colours», invece, che è il vostro terzo album ed è uscito nel 2004, spicca la collaborazione con alcuni importanti jazzisti italiani, quali Bungaro e Di Battista. Da dove nasce l’idea di fondere il jazz, con quella che tu chiami musica etnica? E la collaborazione con loro due?
Credo che il jazz e la mia musica siano molto vicini, sia come genere che come stile. Nella mia musica ci sono molte componenti di bossanova e R&B, di tango ed anche di jazz.
Mentre con Di Battista la collaborazione è nata perché ci lega un’amicizia, con Bungaro è nato tutto perché Aidan [Zammit] lavora con lui.

Il genere chill-out, ossia quello in cui rientrerebbe la vostra musica - sebbene a te non piaccia questa definizione!-, viene spesso accusato di essere ripetitivo e noioso. Come ti poni davanti a questa affermazione e cosa fai tu per smentirla?
Il chill-out non è un genere di musica. È un sinonimo di rilassamento dopo un’attività frenetica. In teoria, tutte le musiche sono create per rilassarsi. Specie le produzioni degli ultimi anni, che hanno visto tantissime compilation del genere. Al momento c’è un’inflazione di questo tipo di musica, non ci sono molti project originali, specie in Italia, dove a parte noi ci sono i Gabin e Donati che fa new-bossa. Puntiamo, quindi, a smentirla attraverso produzioni originali ed innovative, che non si rifacciano a qualcosa di già edito.

La difficoltà materiale di portare in tournèe questo genere di musica, non vi risulta castrante per la vostra produzione musicale? In teoria, tutti i musicisti desiderano molto il contatto col pubblico…
Purtroppo non abbiamo fatto molti concerti. La nostra musica, infatti, necessita di un palco grande, con parecchia attrezzatura, dato che siamo almeno in dieci a suonare. Non è facile trovare posti adeguati, in cui riusciamo a starci tutti. Con una formazione ridotta, però, la complessità della nostra musica non verrebbe fuori e si farebbe un prodotto a metà. Sostanzialmente sono convinto che fino a quando non possiamo realizzare il nostro prodotto come vorremmo fosse fatto, fare dei concerti sarebbe solo peggiorativo, sia per noi che per il pubblico. Non ne varrebbe la pena. Con questo non voglio dire che non facciamo in assoluto concerti perché non ci sono gli spazi adeguati -ad esempio, l’anno scorso ne abbiamo fatto uno in occasione dell’anniversario di Bulgari in Svizzera-, ma solo che cerchiamo di far coniugare le nostre esigenze tecniche con una buona realizzazione live.
Anche perché non abbiamo un repertorio dance, in cui eventuali arrangiamenti computerizzati possono sopperire agli strumenti veri e propri, ma, facendo world music, l’essenziale sono gli strumenti. Tutti.

Hai un luogo preferito per ispirarti musicalmente?
Ponza. È un’isola che amo molto. Per cui ci vado spessissimo. Ed ogni volta mi emoziona.

Nel 1992 sei stato in tournèe nelle Filippine e ne hai diffuso il video. Eri ancora Mike Francis; come mai la scelta delle Filippine? Questa è stata una data voluta da te? E ha, in caso, avuto la valenza di inizio o di punto di approfondimento della tua conoscenza del mondo orientale?
La scelta delle Filippine è stata loro, così come quella di produrre un video. Si trattava di concerti molto grossi, in cui c’erano circa 15.000 persone, per cui realizzare un video era assolutamente idoneo. Inizialmente, il video è stato venduto lì e poi si è deciso di venderlo anche in Italia. Sebbene, quindi, andare in Oriente non fosse stata direttamente una mia decisione, sicuramente ha rappresentato un punto di approfondimento della mia conoscenza del mondo orientale, che, tra l’altro, avevo già avuto modo di conoscere con precedenti mie tournèe in Oriente.

Sei stato uno dei primi esempi di musica italiana esportabile all’estero, in lingua inglese, però. Come mai le case discografiche non producono appositamente per il mercato straniero, limitandosi ad esportare in alcuni paesi il prodotto italiano? Secondo te questa è una mancanza delle case produttrici che non osano o dei nostri artisti che non si rendono conto della globalizzazione della lingua?
La musica tipicamente italiana che si produce è quella folk, per cui o sei un artista del genere o non funzioni fuori. Le nostre imitazioni all’estero di funk, pop e simili, in italiano non funzionano, perché le andiamo ad esportare in luoghi in cui quei generi musicali fanno parte della loro cultura. Solo gli Almamegretta ci sono riusciti. Lo straniero, sentendo un tipo di musica che assomiglia a quella che gli appartiene, ma con una lingua diversa, non la capisce; invece, qualcosa di completamente diverso da quello che è il loro patrimonio musicale, viene accettato e capito. Tutto qui!

Oltre all’album dei Mystic che uscirà venerdì, stai lavorando a qualcosa di nuovo?
Si, sto facendo un disco come cantante, ma da quando sono nati i Mystic non ho più fatto canzoni da cantante. Non so quando dovrebbe uscire, ma dato che è quasi finito, mi auguro tra la primavera e l’autunno.


"Guardare e pensare a persone e luoghi lontani, perché non è sempre possibile viaggiare, anche se viviamo su una terra piccolissima dove, se pur diversi, non siamo così diversi. E se avessimo vissuto in un’altra città qualsiasi, la nostra vita sarebbe stata diversa, ma non così diversa, avremmo fatto cose diverse, ma non così diverse. Avremmo sposato un’altra donna o un altro uomo diversi, ma non così diversi. Qualsiasi posto nel mondo potrebbe essere stato la nostra casa. E quindi va protetto. A queste cose pensavo mentre lavoravo a «From the distance». Francesko, Ponza. Estate 2005.


-Pezzo uscito a marzo 2006 su www.lineamusica.it-