Sono circa le 18 quando busso alla porta di un piccolo teatro nel quartiere di Monteverde di Roma. Mi viene ad aprire Sergio Sivori, che tramite un amico (che ringrazio ancora tanto!), ho avuto la possibilità di incontrare per parlare di alcune iniziative interessanti portate avanti dall’Associazione Claudio Gora, fondata circa 9 anni fa da lui, Cristina Giordana, Luciano Faraone e Paola Montecchiani. All’interno del teatro si sente l’odore del nuovo, ma nel contempo si respira la magia di uno di quei locali antichi, in cui il legno trasuda gli odori dei personaggi che vi hanno vissuto e respirato per lungo tempo. Eppure, il Laboratoriumteatro ha una vita davvero breve; è stato, infatti, inaugurato agli inizi dello scorso dicembre, proprio per volontà dei soci fondatori dell’associazione dedicata al grande attore e regista scomparso nel 1998.
Dopo una visita al teatro, Sivori mi fa accomodare in quella che diventerà per le successive due ore la sede della nostra chiacchierata, una stanza proprio di fronte un vasto spazio rettangolare, all’interno della quale sono stati inseriti anche i camerini. È la sala training. Immancabile, pertanto, la sua spiegazione sull’utilità di questo spazio, nel rispetto dei dettami generali alla base dell’Associazione stessa, intitolata a Claudio Gora «per una questione di affetto nei confronti di un certo tipo di teatro, di un certo tipo di cinema, sebbene sostanzialmente, tuttavia, sia stato lui l’ispiratore di questo gruppo». L’Associazione, mi spiega infatti, «persegue degli obiettivi ormai poco ravvisabili, in disuso, che sono quelli di rimettere in discussione il processo di training quotidiano per arrivare poi anche al discorso performativo, in grado di emanare segnali sperimentali verso l’esterno». Tuttavia, Sivori ci tiene a precisare che quello che a loro interessa di più è «creare un gruppo più vasto di quello che attualmente è, con degli attori che sono in grado di, in un certo senso, uscire fuori dalla quotidianità, attraverso un mutamento del corpo, un segnale preciso di un’arte che si differenzia dal quotidiano. Pertanto -prosegue- abbiamo messo in moto un meccanismo molto rigido, scelto, pedagogico, perché chi partecipa sono quelle “persone di altro tipo”, e questo, ovviamente, ci permette di fare una selezione, al fine di individuare delle persone adatte allo scopo, il che non vuol dire che tutto parta da un dato fondamentalmente di “predisposizione”, ma piuttosto dall’individuazione di coloro che sembrano essere più malleabili verso un processo evolutivo». Scopo principale dell’Associazione, infatti, è portare avanti una realtà «che può essere orgogliosa di dirsi di ricerca, perché -come continua a spiegarmi Sivori- la ricerca non è un modulo performativo, è il campo dell’indagine dell’attore; è, quindi, una cosa segreta, in cui l’attore fa delle cose che non sono visibili all’esterno. Ciò che è visibile all’esterno è il campo della sperimentazione, cioè la messa sotto forma di rappresentazione della sperimentazione frutto della ricerca, per poter, così, provare e verificare se quello a cui lavoriamo ha effettivamente un risultato, corrisponde a quello che ci siamo prefissi». Inevitabilmente, questo è un processo lunghissimo, cui ci si deve dedicare anima e corpo, che richiede un’enorme disponibilità, «un’abnegazione verso un sistema di cose che non fa riferimento al modo convenzionale».
Se, infatti, spesso in teatro si assiste alla riunione di un gruppo di attori, all’assegnazione dei ruoli e alle prove dello spettacolo prescelto per esser rappresentato (e che il più delle volte, poi, sono limitate ad un periodo non lunghissimo), per Sivori tutto ciò riesce a raggiungere il solo scopo performativo, quello cioè di mettere in scena, ognuno con il proprio ruolo, un detto spettacolo. L’Associazione Claudio Gora, invece, parte da un’angolazione diversa, quella che vede al centro l’attore, che, una volta scelto l’autore a lui più consono, deve «ricreare una drammaturgia partendo dalla propria arte, e non dall’arte del drammaturgo».
Il che pone, ovviamente, anche delle difficoltà oggettive, perché l’attore «non si può più esprimere come nella vita» e, quindi, creare anche una sensazione al pubblico di assistere a un qualcosa di immediatamente identificabile. Cura dell’attore deve essere, invece, riuscire a mettere in contatto il pubblico e mettersi in contatto col pubblico, invitandolo a condividere non solo l’evento performativo, ma anche una propria partecipazione emotiva; «il pubblico deve esser messo in condizione di rispondere all’attore e di associare all’evento determinate cose che fondamentalmente non c’entrano con l’evento».
L’immaginario soggettivo che si ripercuote su quello collettivo; la memoria collettiva che interagisce con la memoria soggettiva. Se, infatti, la memoria collettiva è attivata dal dato principe che è lo spettacolo, quella soggettiva verte in maniera profonda su ciò che rimanda ad altro e che, quindi, non è visibile. Tutto ciò, pertanto, dipende dall’invito che l’attore presenta al pubblico, invito così risultante solo dopo un lungo lavoro sulla propria arte e sul proprio ruolo di attore. Tale lavoro costituisce proprio il training, non pensato per migliorare le prestazioni dell’attore nel senso qualitativo, ma piuttosto come mezzo «per arrestare l’invecchiamento dell’attore, per superare quegli ostacoli ai quali l’attore è soggetto e con cui fa i conti continuamente». Riuscendo a superare le problematiche relative alla postura piuttosto che alla gestualità o all’impostazione della voce, l’attore che fa su di sé un lavoro di training «si trova quasi in uno stato di trance», dettato dal superamento di tali problematiche grazie alla conoscenza dei principi che ne stanno a monte e che non necessariamente conducono ad una medesima forma espressiva.
Il teatro kabuki, quello balinese e quello katakali ne sono la conferma, del resto. Puntualizza, però, Sivori che, purtroppo, da occidentali vediamo questo tipo di teatro come «qualcosa di folkloristico» e non come «espressione di una grande forma d’arte»; fondamentalmente, infatti, il teatro, per l’immaginario collettivo è una struttura, un edificio, per cui ne riconosciamo l’esistenza se vediamo l’edificio “teatro”. Invece il teatro esiste in quanto esiste, è in noi. «Allo stesso modo, alla parola tradizione viene associata l’aggettivo “antiquata”; tradizionale è, invece, che la ricerca è fortemente ancorata alla tradizione. Il teatro moderno non è ancorato alla tradizione, perché ne disconosce i principi, e laddove lo fa o pretende di farlo, si ribella a livello formale, e quindi nasce, come ad esempio negli anni Sessanta o Settanta, l’avanguardia, che è un discorso performativo-politico».
La ricerca, invece, non è questo; «la ricerca è un campo di indagine unicamente legato alla figura dell’attore». Tuttavia, questa parola viene comunemente legata a qualcosa di enigmatico, che va a giustificare l’incomprensibilità di una rappresentazione da parte dello spettatore; in realtà, spiega Sivori, non è così, dal momento che la «ricerca è un qualcosa che nasce con l’attore e muore con la morte fisica dell’attore, paragonabile alla ricerca di uno scienziato. Ciò che è visibile è il risultato finale, ma se si ha davanti davvero un ricercatore scientifico, non si può separare la sua figura con quella dello sperimentatore che è sempre in laboratorio, con camice bianco ed ampolle, il cui agire è finalizzato alla scoperta di un rimedio contro un morbo piuttosto che della posologia di una nuova medicina. La stessa cosa vale per l’attore che fa su di sé un lavoro di ricerca. È ovvio che il campo di ricerca dell’attore è un campo stranissimo, in cui l’attore è goffo, fa delle prove, ma prova a fare delle cose per giungere a un risultato che è intimo. E’ questa la ricerca: coltivare per andare avanti».
Per Sivori, inoltre, il teatro di ricerca ha un altro dato “benedetto”, ossia il morire con chi lo fa, il suo non essere tramandabile e non trasportabile in un’altra dimensione di ciò che è. Eugenio Barba dice: «L’eredità di noi stessi a noi stessi», cioè l’eredità di noi a noi stessi, non c’è un’eredità che si può trasmettere.
Tuttavia, il problema più in generale, secondo lui, è che «il teatro non ambisce all’opera d’arte»; non avendo questa ambizione -come la pittura, la scultura, la musica o la lirica-, «si traduce ad opera d’arte uno scritto, una realizzazione importante, che quell’autore ha creato», senza però poi porre attenzione allo spettacolo, alla performance, che, tuttavia, «necessita di collocarsi in qualche modo in quell’ambito per sublimare se stessa, per avere un senso». Oggi, però, il teatro non ha questo scopo, per cui viene minacciato dalla televisione o da altre cose; «se solo il teatro prendesse le distanze da tutto ciò avrebbe più chances».
Egli è, infatti, fermamente convinto che il teatro debba esser fatto da pazzi, «perché bisogna sempre avere la presunzione di fare un’opera d’arte, a prescindere da quello che ne uscirà fuori. È come se chi va a studiare presso un conservatorio di musica partisse dall’idea di voler fare il violinista di fila; inevitabilmente, non riuscirebbe a raggiungere il suo obiettivo». Del resto, è un dato di fatto che i virtuosi nella storia sono sempre pochi.
«Di conseguenza, se il teatro rincorre il cinema perde inevitabilmente, perché i mezzi del cinema sono diversi, la possibilità di saltare da uno spazio tempo a un altro -e sto parlando dell’elemento filmico-, il teatro non te la può dare, quindi esso deve ritornare a una dimensione di artigianato, dove ambisce all’opera d’arte proprio in quanto ha la possibilità di farlo».
Tuttavia, prosegue, «bisogna fare una scelta oggettiva; quando la pittura riproduceva la realtà -ed erano i grandi pittori che lo facevano, quelli con una tecnica, come Raffaello o Michelangelo-, essa era frutto del lavoro dei “fotografi” dell’epoca. Quando è nata la fotografia, la pittura non è morta ma si è liberata da questo, è nato Picasso, quando è nata la fotografia. Quando è nato il cinema, anche il teatro avrebbe dovuto liberarsi dalla riproduzione della realtà, ma nei fatti ha subito il tutto come un’aggressione, una minaccia, perché chi ha pensato che il primo fosse pericoloso per il secondo non l’ha realizzato prima che quest’ultimo soccombesse, ma dopo, tant’è vero che la televisione e il cinema hanno dovuto vivere del supporto degli attori di teatro, perché nessun altro sarebbe stato in grado di farlo. Il più del cinema e il più della televisione è stato fatto con gli attori di teatro. Dopodichè il cinema e la televisione hanno proseguito sulla strada del naturalismo che deve restituire quotidianità, in cui la gente vuole riconoscersi, mentre il teatro, invece di conservare e capire che il suo compito era finito in quell’arte -e che quindi avrebbe dovuto ritirarsi e continuare verso un’evoluzione lavorando sulla extra-quotidianità-, è rimasto ancorato al passato. Doveva rendersi conto che il teatro, la televisione e il cinema sono arti completamente diverse; il problema, infatti, nasce quando queste cose vogliono confluire e vogliono esprimersi. Sono strade completamente diverse, sulle quali non conviene mai fare paragoni perché sono delle cose differenti».
Al di là dei parallelismi con altre forme di spettacolo, il discorso ritorna sulla ricerca e su quanto e in che modo essa abbia contato nei tre spettacoli prodotti dall’Associazione Gora fino ad oggi, ossia in “L’ultimo giorno”, “Amen” ed “Elisabetta e Limone”.
Le scelte, aggiunge Sivori, sono state diverse tra loro nei confronti delle tematiche, però gli attori erano sempre «in una certa dimensione». Questi tre progetti sono stati da lui posti sotto l’egida dei "I teatri della crudeltà", da non confondere con il teatro della crudeltà. Tuttavia, a suo dire, in qualche modo i teatri della crudeltà hanno agito in un teatro della crudeltà, «perché l’attore è diventato quasi crudele verso se stesso nell’esporsi generosamente, trovando un meccanismo attraverso il quale è potuto arrivare ad un estremo», come, del resto, intendeva Artaud.
Il primo dei "Teatri della crudeltà" è stato il frutto della rivisitazione da parte di Sergio Sivori del testo di Victor Hugo (“L’ultimo giorno di un condannato a morte”), rivisitazione dettata dalla necessità di focalizzare l’attenzione sugli ultimi momenti di un condannato a morte -e al di là anche della tematica politica e sociale, sebbene essa fosse in ogni caso presente, dato che il progetto è stato patrocinato anche da Amnesty International e dall’associazione Nessuno tocchi Caino-. Non potendo sapere quali emozioni in effetti chi si trovi in quella condizione possa provare, Sivori era, a suo dire, «curioso di sapere come un attore può affrontare questo in una dimensione diversa, fatta di azioni fisiche e non di tracciati, come dire, ipotesi che partono da un suggerimento drammaturgico». E così è nato “L’ultimo giorno”.
È stata poi la volta di “Amen”, anch’esso ispirato da un racconto di Federico De Roberto e forse ancora più “crudele” del precedente; spiega, infatti, Sivori che in quest’opera la storia non ha fondamentalmente importanza, ma ha importanza piuttosto una serie di sensazioni che il pubblico può provare rispetto a quello che l’attore riesce ad associare. Pertanto, è in questo senso crudele, sia verso l’ attore che verso il pubblico, perché porta quest’ultimo ad essere esasperato dalla partecipazione, avendo sempre la sensazione di non essere al sicuro, con le proprie emozioni eternamente bloccate al culmine e la tensione derivante dal desiderio di farle giungere, finalmente, a una mèta precisa. «Era forte, emotivamente richiedeva di partecipare».
L’ultima opera dei "Teatri della crudeltà" è stata, invece, “Elisabetta e Limone” di Rodolfo Wilcock.
Attualmente Sivori sta lavorando, invece, ad un progetto ispirato a “Quartet” di Henri Muller. «È un progetto al quale tengo molto perché sono tanti anni che penso di fare questo lavoro; Muller rientra nei pochi che hanno saputo sintetizzare con la scrittura la sperimentazione e la ricerca. Ti lascia libero di fare quello che intendi fare. Anche in questo caso, la descrizione della storia non è quello che mi interessa, ma piuttosto lo è la modalità. È la modalità di decadenza dell’uomo, dove tutto è rarefatto, tutto diventa rocambolesco, terreno, in cui tutto questo si mescola come in un grande caos quasi biologico, dove tutto assume una forma che tende verso la morte fisica. Dovendo sublimare ciò che mi interessa, gli attori si trovano bloccati in una dimensione di mobilità nell’immobilità, che vorrei rendere proprio come nello spartito. E se io intervenissi, creerei delle dissonanze in termini di fruizioni, non permetterei di ascoltare questa musica. Ecco perchè in questo ci muoveremo molto lentamente; desidererei arrivare lì in quel modo, partendo da uno scritto che non intendiamo mutare».
Perché «se il teatro è un atto d’amore, deve essere libero come quello».