"15 paia di slip, 4 reggiseni, 10 pantaloni, 3 paia di scarpe, 2 libri, spazzolino..."
In genere inizia sempre con una lista un mio viaggio; la lista delle cose da comprare prima della partenza, la lista delle cose da vedere nel posto dove sto per andare, la lista delle cose da mettere in valigia. Poi, puntuale, la sera prima, a poche ore dall'aereo o treno o macchina che sia, i preparativi.
Nonostante i ripensamenti durati giorni, fatti di mille cancellature nelle famose liste di appartenenza, tanti scontrini e buste qua e là.
Il rituale si compie in pochi minuti, quasi a voler prendere in giro tutta la "fatica" mentale che ho fatto in precedenza.
Ed anche questa volta non mi sono smentita...ho l'aereo tra meno di dodici ore e ho appena finito (veramente non l'ho ancora chiusa, per cui qualche ripensamento mattutino ci sarà sicuramente!) la mia valigia.
Destinazione New York.
Finalmente, dopo un'estate totalmente romana (tranne breve pausa tanguera a Todi!), parto anche io.
Mio fratello si è trasferito lì per lavoro e ci starà per almeno un anno...
Una nuova vita sicuramente gli sta per aprire tutti gli orizzonti.
Ed io, al seguito dei familiari premurosi ed ansiosi di questa assenza oltreoceano, domani prenderò il volo che mi porterà nella Grande Mela.
Un viaggio di saluto, non di vacanza, in effetti.
Un saluto prolungato, di quelli che si fanno due innamorati che per qualche tempo sanno di non potersi vedere..
L'altro giorno parlando di Londra con un'amica, le ho detto che quella è la città della presenza-assenza; a Londra, sei tutto e sei niente.
Sei sguardo ed orecchio, tatto ed olfatto, velo ed ombra.
Ogni volta che ci vado mi rigenero.
Mi piace sdraiarmi nei giardini di Buckingham Palace, accanto al ruscello, in mezzo a quel verde macchiato dai colori dei fiori, guardare su, verso il cielo, e perdermi nelle nuvole sopra di me. Mi piace camminare con in mano il tazzone di carta del caffè, come fanno loro, ma non per spirito di emulazione, bensì come gesto naturale, come se ci fossi da sempre abituata.
Di Londra mi piace la sua pioggia lieve e costante, come un dolore mesto e penetrante.
Eppure, quella stessa pioggia, mi riempe di gioia, nonostante lo assimili nella mia testa a questo.
Vorrei che anche New York mi entrasse nella pelle come Londra.
Sarei più contenta sapendo che chi momentaneamente vive lì è in un posto dove il respiro è il regalo più bello che puoi ricevere da quell'immensità. Senza terrorismo, senza paura di prendere la metropolitana o di andare a lavorare in un grattacielo nella City.
Solo con i gospel di Harlem, le strade grandi e verdi che ho sempre visto nei telefilm, le loro feste e tradizioni, le opere d'arte dei più prestigiosi musei del mondo.
Torno negli USA dopo circa dieci anni; la prima volta che ci sono stata sono andata con la scuola per quasi un mese in Pennsylvania.
Lì sono salita su un carro pieno di fieno e ho cantato a squarciagola insieme ai miei compagni di classe il giorno di Halloween, mentre loro, gli americani, si divertivano a tirare uova e mais ai passanti. Un improbabile incontro di cultura romano-italiana con quella di un piccolo paesino degli Stati Uniti, dove la domenica al mercato si incontrano gli hiddish a bordo di un calesse che trasporta le loro donne-cugine vestite di nero e che mantengono lo sguardo a terra.
Lì, quella stessa sera ho passeggiato per le strade di una piccola cittadina circondata solamente da campagna e case in stile vittoriano; ero vestita da "coltello"...era Halloween, bisognava rispettare il rito del "trick or treat"...
Ho detto "give me something good to eat!"ad ogni porta di Mifflinburg; sono tornata a casa con sacchetti pieni di dolci e gli occhi pieni della bellezza della diversità.
Vorrei tornare così da New York.
Con gli occhi pieni.
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